La filiera del Turismo e la storia di un’utopia

di - 21 Gennaio 2018
Sono anni che si sente parlare di una filiera ampia del turismo. Sono anni che nel nostro Paese risuonano da convegno a convegno, da comunicato a comunicato, parole come integrazione delle filiere, offerta integrata, etc. etc.
Quali sono i reali ostacoli che hanno reso impossibile sinora la creazione di tale filiera? Sono essi di natura tecnica o piuttosto di tipo strategico? È l’incapacità del nostro “sistema Paese” o manca una reale volontà di trasformare questa esigenza in un dato di fatto?
Nel 2016 l’Italia si è dotata di uno strumento, che si sperava potesse essere innovativo, vale a dire il Piano Strategico per il Turismo.
Tale piano, nei fatti, rappresenta purtroppo ciò che per anni, nel nostro Paese (in termini di cultura soprattutto) si è pensato significasse “strategico”.
Ma facciamo un po’ di ordine.
Perché un piano strategico possa davvero essere considerato tale sono necessari almeno tre elementi:
1) Un’analisi dettagliata del contesto nazionale ed internazionale;
2) Definizione di Obiettivi chiari;
3) Attività strategiche che si intende porre in essere per raggiungere tali obiettivi.
Martin Parr, Rome, The Spanish Steps 1993
È importante che questi tre elementi rispondano a classificazioni “chiuse”, vale a dire che gli obiettivi non possano essere confusi con le attività strategiche e/o viceversa.
Nel Piano Strategico di Sviluppo per il Turismo accade invece esattamente il contrario: obiettivi e interventi risultano molto simili tra loro (fino a confondere la differenza tra intenzione e azione).
Basta guardare come è stato sinteticamente definito il planning legato al macro-obiettivo A del Piano: l’obiettivo generale A è quello di “innovare, specializzare e integrare l’offerta nazionale” e si dipana in tre “obiettivi specifici”:
a) Valorizzare in modo integrato le aree strategiche di attrazione turistica e i relativi prodotti;
b) Valorizzare in modo integrato le destinazioni turistiche emergenti;
c) Ampliare, innovare e diversificare l’offerta.
Fin qui, a parte l’ovvietà degli obiettivi, tutto sembra comunque filare. Ma sono le linee di intervento che rendono tutto molto più confuso: il “sostegno a processi di aggregazione e governance Pubblico/Privata delle destinazioni e dei prodotti” non sembra una linea d’intervento, quanto piuttosto un obiettivo.
Perché questo focus così approfondito sul Piano?
Perché è a causa della loro vaghezza, i piani strategici hanno soltanto avuto la funzione di riempire i cassetti della pubblica amministrazione (e forse continueranno ancora a svolgere questo ruolo a lungo), e non è difficile capirne il motivo: uno dei concetti base della comunicazione è che ad un determinato significante deve corrispondere uno specifico significato; quando questa relazione viene a mancare, abbiamo un problema che, nel nostro caso, non è solo di linguaggio.
Ma non si tratta solo di questo.
Martin Parr, Venezia
Uno dei punti fondamentali dei “piani strategici” è la presenza di un attore (o di una serie di attori) realmente intenzionati a portare a termine le azioni che in essi sono contenuti al fine di raggiungere gli obiettivi che sono stati esplicitati, e a ben vedere, quest’attore, nel nostro Paese, manca.
Il Turismo in Italia potrebbe essere molto più avanzato rispetto a quanto rappresentato dalla nostra offerta: le innovazioni tecnologiche potrebbero incrementare esponenzialmente la conoscenza dei desideri dei turisti, siano essi locali, nazionali o internazionali.
Intelligenza Artificiale, blockchain [un registro aperto e distribuito che può registrare le transazioni tra due parti in modo efficiente, verificabile e permanentee, n.d.r.] big-data sono il futuro, ma non esistono “realmente” progetti che mirino ad introdurre le innovazioni derivanti da queste tecnologie all’interno della filiera di produzione turistica.
Si pensi al caso in cui un soggetto X si sposti da Milano (città in cui vive abitualmente) a Lodi per una giornata “fuori porta” (come si diceva un tempo).
Quasi tutte le statistiche inerenti il turismo ignoreranno questo soggetto: le statistiche sulla mobilità registreranno la vendita due biglietti (uno all’andata, l’altro al ritorno) che tuttavia non indicheranno quali siano le motivazioni dell’acquisto; allo stesso modo le rilevazioni legate al settore food non potranno affermare che il conto pagato dal nostro soggetto X sia dovuto alla bellezza del Duomo di Lodi.
Martin Parr, The Amalfi Coast Capri 2014, Pigment Print  cm 65×90 ed. 110
Queste informazioni sono invece chiare a Google, Apple o Facebook: incrociando i dati social con la registrazione delle posizioni GPS sapremmo con esattezza che il nostro signor X, che vive a Milano (tragitto casa-lavoro) è andato a Lodi per una giornata (biglietti comprati e messi in agenda o posizione GPS), ha visitato il Duomo di Lodi che ha apprezzato molto (GPS e quantità di foto che ha scattato con il cellulare all’interno del Duomo) e poi ha mangiato in un ristorante nelle vicinanze e ha mangiato a suo avviso molto bene (recensione su trip-advisor).
L’importanza di queste rilevazioni andrebbe ben oltre la “statistica”. Grazie a questo tipo di informazioni, sarebbe finalmente possibile correlare le differenti industrie che concorrono a definire ciò che continuiamo a chiamare “settore turistico” senza però riuscire a definirne in tutto il perimetro.
In questo modo, ad esempio, potremmo sapere quanto la presenza di Beni Culturali influenzi i flussi turistici di un dato territorio (turisti che visitano di fatto un bene culturale); quanto questa categoria di turisti impatti su altri settori (food, commercio, etc.) rispetto ad altre categorie di turisti (turisti d’affari, turisti enogastronomici, turisti religiosi, etc.).
Ma tutto questo è fantascienza per noi.
Noi ci accontentiamo di stime, campioni, e siamo felici che i Piani Strategici contengano la definizione “big data” soltanto in un paio di occasioni: la prima, correlata ad una “mappatura dei luoghi della cultura e degli eventi di grande rilievo nazionale”; la seconda, nel contesto di un non meglio specificato “miglioramento delle basi statistiche attuali e la terza relativa al “marketing predittivo”.
Se si continua così, il Brand-Italia varrà sempre meno. E nemmeno il Colosseo potrà farci qualcosa.
Stefano Monti

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