PERDERSI L’ARTE SOTTO IL NASO |

di - 6 Novembre 2008
Tempo di kick off per la nuova stagione dell’arte mondiale: le prime aste sono già alle spalle con risultati complessivi non proprio esaltanti. Parlare di crisi è eccessivo, ma prendere atto del rallentamento no. Una sana frenata sui prezzi, che in fondo all’arte fa anche bene. Le fiere pure sono partite, a Shangai e Singapore. Ed è solo l’antipasto: a ottobre è toccato, tra le altre, a Berlino, Londra, Parigi e Verona. Ma già a settembre molte capitali dell’arte hanno celebrato gli opening collettivi. Da New York a Los Angeles fino a Milano e Roma. La sensazione è che l’arte globale ci abbia preso un po’ la mano: l’arte è tanta, ovunque, sempre.
In apparenza, uno stato di benessere, quello dell’arte, che conforta. Eppure, per quanto inattese, nei mesi scorsi si sono levate due voci autorevoli che hanno insinuato qualche dubbio su questo modello di crescita inarrestabile ed esponenziale dell’arte mondiale. Per prima è stata Henriette Huldisch che, nel testo di presentazione all’ultima edizione della Biennale del Whitney, scomodando Beckett ha invocato un’arte smaller, slower, and less. Poco dopo, sulla stessa lunghezza d’onda, ecco schierarsi Adam Budak, che nel suo progetto per Manifesta 7, Principle Hope, ha sposato la causa del regionalismo, esaltando l’etnologia dello spazio minore, locale e marginale. Si dirà che Huldish e Budak parlavano di arte e non di mercato dell’arte. E che le due cose non possono essere confuse. Allo stesso modo credo però che sarebbe un errore grave per il mercato non tener nel debito conto delle riflessioni che provengono da ciò che rappresentano. Se almeno vogliono rappresentarlo coerentemente.
Il formidabile impulso dato nell’ultimo decennio alle fiere d’arte e biennali internazionali ha certamente contribuito a edificare un palcoscenico straordinario per gli artisti di ogni angolo del globo, accelerando anche i processi di cambiamento e alternanza, affrancando dall’isolamento culturale molti Paesi emergenti. Ma ha anche forse indotto a un appiattimento del gusto, ha ostacolato le istanze della ricerca a vantaggio del riverberarsi di modelli estetici consolidati, ha esaltato spesso spinte retroattive e revisioniste, si è accontentato troppe volte di uno spoglio documentarismo. E, non da ultimo, ha sostituito alla figura dell’artista come intellettuale l’artista come star mediatica.
Il Golden Age dell’arte contemporanea ha favorito profonde trasformazioni nel sistema dell’arte, ivi compreso l’istituto della galleria privata, luogo deputato a scoprire e a costruire il mercato dei nuovi talenti. Le gallerie si sono moltiplicate a ritmo vertiginoso, nascono e muoiono a ritmo vertiginoso. Chi sopravvive o si struttura in succursali straniere per intervenire tempestivamente sulle figure più appetibili dei mercati caldi o si candida a partecipare a quante più fiere possibile. Così le mostre si diradano, si fanno frettolose, i progetti curatoriali seri si rarefanno, le scuderie si infarciscono di esponenti delle mode in voga: ieri la Cina, oggi l’India, domani il Medio Oriente, dopodomani la Russia. Giusto per seguire l’odore dei soldi. Installazione e video per i musei, pittura e fotografia per i collezionisti, la scelta degli artisti si fa sempre più strategica e corrisponde sempre meno allo scenario locale e nazionale nel quale la galleria opera.
Sarà un caso ma negli ultimi anni sono fioriti un po’ ovunque gli spazi non-profit (più all’estero che in Italia purtroppo) che hanno preso in carico l’onere di offrire spazi di azione e di confronto per gli artisti del territorio di riferimento.
L’appello della Biennale del Whitney e di Manifesta potrebbe essere dunque colto anche dal mercato e inteso come un appello: uno spazio per l’arte privo d’identità non serve all’arte, uno spazio dell’arte che documenti le istanze più interessanti del territorio che gli sta intorno sì. Scegliere gli artisti nazionali non dovrebbe essere solo un’esigenza per ottemperare agli oneri di rappresentanza delle commissioni selezionatrici delle fiere internazionali ma una precisa mission culturale.
Ma c’è di più. Uno spazio dell’arte privo d’identità non serve neppure al mercato. Oggi numerose sono le gallerie di ricerca internazionale che sopravvivono solo grazie alle fiere. Di molte, c’è chi sostiene che i due terzi del fatturato dipenda da questa attività. Ma conta più vendere tre opere in fiera o un’opera in sede? È più lungimirante intercettare tre collezionisti in transito negli stand o cercare di costruirsi un ristretto bacino fidelizzato che possa contribuire alla crescita della galleria stessa?

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alfredo sigolo

foto in alto: Marco Campanini – Collezione di sabbia – 2007 – courtesy Fotografia Italiana, Milano


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 52. Te l’eri perso? Abbonati!

[exibart]

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  • ho trovato estremamente interessante e purtroppo reale l'articolo.
    Sono un pittore,trovare spazi in Italia è sempre piu difficile, i galleristi sono concentrati quasi esclusivamente su fenomeni conosciuti o abbonati alle aste o a critici/mercanti che fanno il bello e il cattivo tempo.
    La mia personale esperienza è che mentre un museo piuttosto importante ed esclusivo in Malesia mi ha permesso di esporre, qui in Italia nonostante un timido tentativo (300 e-mail inviate ad altrettante gallerie)nessuno mi ha considerato piu di tanto ed evito di commentare alcune risposte ricevute per non cadere nel ridicolo.Ora, è mai possibile essere un cigno da una parte e diventare il brutto anatroccolo dall'altra?
    Trovare il modo di farsi vedere e conoscere è sempre piu difficile, a meno di avere o "conoscenze" o una disponibilità economica da che permetta l'autopromozione. Spazi ce ne sarebbero manca la volontà e l'intelligenza di investire, cito come esempio emblematico proprio firenze..città d'arte riconosciuta a livello mondiale ma tragicamente sprovvista di un museo d'arte contemporanea.
    Se i galleristi che dovrebbero essere i promotori dell'arte, sopratutto nelle loro aree territoriali di competenza, guardassero un pò meno al portafoglio e un pò più all'oggetto del loro lavoro "l'arte" probabilmente si accorgerebbero piuttosto velocemente che investire un pò di tempo sulla ricerca gli aumenterebbe pure lo spessore del loro postafoglio.

  • caro Riccardo. Per curiosità dopo aver letto il tuo appassionato commento sono andato a vedere il tuo sito. Seriamente tu credi di essere pronto a esporre in una galleria che si rispetti a addirittura in un museo!? I tuo lavoro può andare bene in Malesia! Forse a Lagos... ma non pretendere di più!

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