Dipingilo sui muri. Del museo

di - 24 Novembre 2013

Cartolina da una mostra: pareti bianche intonse, nessuna opera o segni d’intervento. Una prima sala completamente vuota. Eppure ogni cosa è al suo posto, nessun “topo da museo” ha fatto sparire nulla, per di più l’artista in questione, Zhang Enli (Jilin, 1965; vive e lavora a Shanghai) al suo battesimo italiano (da ottobre lo si può vedere anche all’ICA di Londra), non è per solito dedito ad operazioni concettuali formalmente ridotte all’osso. Il trucco c’è, ovvio, ma ancora prima di svelarlo Enli ha escogitato un efficace effetto di spiazzamento percettivo come ouverture per la sua personale Landscape (a Villa Croce fino all’otto gennaio), concepito sfruttando la piccola anticamera a disposizione, un passo prima che tutto cominci, quattro pareti dipinte in un verde intenso pennellato senza badare alla precisione.
Quattro pareti che immediatamente appaiono troppo “cariche”. D’embleé arriva il bianco, quello della prima sala, il vuoto “scarico” di un corto circuito visivo che più indovinato di così si muore, e dopo ancora l’arcano della “mostra invisibile” si dipana. Mai pensato di contemplare il soffitto? Ecco, questo è il momento di cominciare farlo, poiché è lì che Enli ha concentrato tutta la parte iniziale del suo passaggio italiano.
Un trabatello, sei giorni di lavorazione e via, nelle luminose sale ad intervenire direttamente sulle volte con stesure gradate di marrone e verde, ricostruendo ad acquerello una verzura trompe l’oeil iconograficamente più forte dello stesso inganno ottico perché allegorica del colloquio bilaterale esterno/interno, alla ricerca di una compartecipazione attiva – e un pizzico bucolica – tra intervento pittorico, location e vegetazione di contorno, querce in particolare. Con nella mente tanta tradizione pittorica italiana, ma filtrando dalla propria azione quella precisione mimetica che appartiene al Leonardo Da Vinci della Sala delle Asse, all’Andrea Mantegna della Camera degli Sposi o al già manierista Parmigianino di Fontanellato.

Se indubbiamente il retaggio di certe soluzioni è parte integrante del lavoro di Enli, lo è in misura inversamente proporzionale al suo interesse per la perfezione formale, a tutto vantaggio di un gesto dinamicamente istintivo che Ilaria Bonacossa, curatrice di Villa Croce e della mostra, dichiara essere privo di bozzetti o progetti preliminari, di una pennellata a tratti compulsiva e pur sempre dosata nel suo espressionismo, e alla quale – tanto per restare in tema di maestri dell’arte – si potrebbe dare la definizione di simil-veronesiana. Nel Veronese, come in Enli, c’è l’incanto della traccia rapida stesa per dare concretezza all’insieme; concretezza che però Enli comprime con assoluta libertà, sotto l’impronta metafisica di un intervento che lascia il bianco puro del soffitto al centro, tra i rami e le foglie diradati ad hoc. Zero allusioni ad un ipotetico cielo sono comprese nell’uso intensivo di un pigmento fortemente liquefatto, dalle cui pennellate fioccano aggregazioni di piccole bolle d’acqua, codice decorativo per un tratto che di sala in sala sembra risultare impresso sempre con più velocità.
Alla quarta sala Zhang Enli inverte il significato del proprio site specific, lavorando d’ora in poi sulla verticalità parietale; più realisticamente, qui si è dedicato all’ambiente interno in quanto tale, garbatamente ne ha segnato il tempo, leggere tracce, macchie e tre buchi fittizi dipinti con un acquerello che in questo caso sottrae invece di arricchire, non crea nessun tipo di bellezza formale, né condiziona l’ideale visivo. L’artista è transitato caricando la stanza di un delicato sentore di passato/assenza, riportando in formula tridimensionale l’interesse per la cessata quotidianità (chiamarla banalità forse sarebbe riduttivo) di quegli ambienti spogli/abbandonati che contraddistinguono gran parte dei suoi lavori su tela. La “non presenza” fisica dell’opera d’arte contenutisticamente si spiega solo attraverso il suo sorpassato “esserci”, “quel che resta dell’art” scritto in un linguaggio simbolico improntato a partire dall’uomo, su ciò che lì ha fatto, su quel che lì ha lasciato.

Decisivo il cambio di registro riservato all’ambiente successivo, coperto su tutte le pareti da una fitta boscaglia di tronchi, rami, foglie e ben evidenti tracce di gradazioni blu-azzurro cielo. Ancora una volta però l’azione di Enli è più espressionista che imitativa, fondata sulle pennellate larghe e ben evidenti, sulle colature di acquerello, sui rami che in alcuni casi assumono l’assurdità di un colore blu cobalto e intrecciandosi prendono le sembianze di grovigli tubolari, altro soggetto tra i preferiti dall’artista.

L’altalenante parabola cino-genovese si conclude nella stantia quietudine della sala successiva, dove è soprattutto il verde iper-diluito a simulare macchie di umido sparse in vari punti; l’ambiente in cui più ci si rende conto che il site specific per Zhang Enli non è soltanto specific, ma presuppone in sé anche una narrazione diacronica dello spazio messo a disposizione.

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