Falso movimento

di - 26 Settembre 2012

I ritratti animati si muovono dentro la loro cornice tecnologica e dialogano con l’ambiente, dando vita a uno spiazzamento geniale, che contiene insieme i tempi – passato, presente e futuro – dell’arte, dimostrando, in modo misterioso ma puntuale, la sua atemporalità. Si esce con un senso di vivace spaesamento dalle sale del piano nobile di Palazzo Madama, a Torino, dove fino al 6 gennaio va in scena, letteralmente, una mostra che fonde le culture artistiche, mescolandone e rinnovandone i linguaggi. Si tratta di “Robert Wilson. Ritratti a Palazzo Madama” – prodotta da Change Performig Arts e realizzata dalla Fondazione Torino Musei con il Prix Italia, che ha ospitato il vernissage giovedì scorso – e già nel titolo contiene i vari significati che, come un mosaico, la costituiscono.

Innanzitutto l’artista, Robert Wilson, il texano che portò Einstein sulla spiaggia (Einstein on the beach, 1976) e, più recentemente, la poesia dei sonetti di Shakespeare accostati a una pompa di benzina (Sonnets, 2009) o l’universo visionario di Marina Abramovic raccontato quasi come un fantastico fumetto (The life and death of Marina Abramovic, 2012: uno spettacolo semplicemente strepitoso). Poi il luogo: Palazzo Madama, sede nobile del barocco – e non solo, per esempio c’è anche Felice Casorati – a Torino. Ecco dunque che l’artista fa il luogo, regalandogli sapori, suggestioni, perfino odori diversi. La tradizione delle collezioni ospitate nel museo entra in dialogo con la frontiera dei ritratti in alta definizione, videoritratti che hanno per soggetti alcuni protagonisti del mondo dello spettacolo e animali, fino a un’ex imperatrice.

Opere, a cui Wilson si dedica dal 2005, realizzate attraverso set infinitamente lunghi, ore e ore di riprese tecnicamente perfette, nobilitate da luci e colori ammalianti, pose plastiche o ironiche, condite con il divertimento della finzione del costume di scena e con quel pizzico di drammaticità che è il sale del teatro. Opere che si accoppiano, fondendosi nel contrasto, con ciò che il museo offre quotidianamente e che affonda l’origine nella solida sostanza dei secoli. Ci sono Johnny Depp truccato e impellicciato, Brad Pitt a torso nudo sotto l’acqua, Jeanne Moreau come Maria Stuarda e Steve Buscemi macellaio incravattato, Mikhail Baryshnikov tragico San Sebastiano e Salma Hayek in ammaliante posa retrò, ma anche Farah Diba plastica e umanissima imperatrice di Persia (imperatrice e Persia, termini antichi che appaiono collocarsi oltre il tempo cronologico) e la pantera Ivory, il porcospino Boris o il gufo Kool. Ciascuno ha il suo tappeto musicale, su cui si muove, compie gesti, con la lentezza, la ieraticità, l’algido e perfetto movimento del teatro di Bob Wilson.

Il tutto in un ambiente “caldo”, di legni e velluti, di pitture e cornici, di stucchi e vernici che rappresentano l’anima del museo. Un luogo che viene dal passato e così si proietta nel futuro. Una mostra per la prima volta fuori dagli ambienti dell’arte contemporanea e davvero site-specific, perché dall’ambiente, dal contesto, i ritratti prendono nuova forza ed energia.

Due parole costituiscono l’anima di questi ritratti viventi: fissità e movimento, la frontiera che unisce la contraddizione su cui da sempre lavora il gigantesco (in tutti i sensi: è altissimo e i suoi famosi occhi di ghiaccio si aprono spesso a divertiti sorrisi) Wilson. A spiegarlo è lo stesso artista. «Nella mia carriera mi sono sempre interessato alla fissità e al movimento che c’è quando siamo fermi. Perché quando non ci muoviamo siamo più consapevoli del movimento di quando siamo fermi». Quando siamo fermi ci accorgiamo del movimento, sosteneva Martha Graham. La fissità è il potere degli animali selvaggi, scriveva Ezra Pound. Racconta, Wilson, di un’esperienza illuminante in tal senso compiuta anni fa allo zoo di Berlino. Vicino ad alcune rocce stava un branco di quindici lupi grigi. «Io non mi muovevo, loro neanche, ma percepivano la mia presenza. Divenni uno di loro, per dieci minuti diventammo un branco, capace di ascoltare con tutto il corpo. L’esperienza dei ritratti è simile a quella fatta con i lupi grigi. Tante ore di preparazione tecnica, poi arriva il momento dell’inizio della ripresa: nessuno parla più, nessuno si muove. A tutti chiedo di ascoltare il silenzio. Il movimento che si coglie scaturisce da un movimento interiore, che viene esteriorizzato».

È un lavoro formale, esattamente come quello che Bob Wilson realizza in teatro, dove secondo lui la regola numero uno è il saper stare fermi in un punto del palcoscenico, cosa molto più difficile che saltare qua e là (Kleist: «Un buon attore è come un orso. Non si muove mai per primo»). Allora, a tutti i soggetti l’artista non ha chiesto di trasformarsi in qualcosa, ma di permettere a chi li osserva di sentire, di percepire sensazioni. «Sono ritratti senza messaggio – dice – che vanno guardati e basta». Una dichiarazione che si sposa con il suo manifesto artistico: «Faccio arte non per dare risposte, ma per fare domande. Non per dire, ma per chiedere».

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  • MMh…… opere senza messaggio che dialogano con la cornice barocca di un luogo!?!?
    E poi, chissà cosa avrebbero da dirsi?

    Vivacemente spaesato, esco a farmi un caffè.

    E mentre fisserò la barista, lei sarà in movimento a prepararmi il caffè.
    Così anch'io potrò riflettere su fissità e movimento!

    E se arriverà Kleist, come un bravo attore non mi muoverò per primo, ma offrirò io dopo che lui avrà già pagato.

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