I piedi per terra e la testa nel cloud: l’arte del camminare per Carlo Infante

di - 15 Ottobre 2025

Roma non si lascia mai decifrare del tutto: si attraversa, si ascolta, si lascia intuire. Paesaggi Umani di Roma Plurale – Performing Media Storytelling per la Memoria Rigenerativa, ideato da Carlo Infante – Urban Experience e promosso da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura, vincitore dell’Avviso Pubblico “Roma Creativa 365. Cultura tutto l’anno”, in collaborazione con Zètema Progetto Cultura, restituisce alla città la sua voce profonda. Un progetto che intreccia tecnologia, memoria e cammino, trasformando i quartieri, dal Tuscolano a Tor Tre Teste, da Monte Mario al Pigneto, in spazi narrativi aperti, dove ogni passo diventa gesto estetico e civile.

Carlo Infante, intellettuale nomade, docente e “changemaker”, guida da anni Urban Experience come un laboratorio di performing media: una modalità performativa che unisce corpo, podcast e territorio, mettendo in dialogo la città e chi la vive. Lo incontriamo per parlare di Roma, della memoria e di come si possa ancora camminare dentro una storia collettiva che non ha mai smesso di respirare.

Il titolo Paesaggi Umani sembra indicare un’inversione di sguardo: non la città che osserviamo, ma quella che ci guarda. Cosa significa, per lei, restituire a Roma un volto umano in un’epoca che tende a smaterializzare tutto?

«Roma è plurale, è stratificata, coniuga la dimensione selvatica dell’Agro Romano in abbandono con una metropoli epicentro della civiltà occidentale. Quel “volto” di cui parli è quello di tutti quei cittadini disposti a mettersi in gioco perché a monte di qualsiasi rigenerazione urbana c’è la rigenerazione umana. E a proposito di volti penso al walkabout con le videoproiezioni nomadi di Nuvola Project che abbiamo condotto all’Antiquarium in cui i partecipanti ci hanno “messo la faccia”, accogliendo sui loro visi l’immagine animata con l’intelligenza artificiale di Lucrezia Romana che narra (con le parole di Shakespeare) la sua tragedia. La dimensione immateriale di un artefatto digitale è stato quindi funzionale alla presa di coscienza di un evento importante per la Storia di Roma: il suicidio di Lucrezia, dopo lo stupro subito dal figlio di Tarquinio il Superbo, determinò la fine della tirannia dei re etruschi nel V secolo aC».

La vostra idea di memoria rigenerativa supera la semplice conservazione del passato: non si tratta di custodire, ma di trasformare. In che modo questa memoria attiva può diventare strumento di cittadinanza e non solo di rievocazione?

«La modalità che adottiamo è quella del performing media attraverso cui l’uso sociale e creativo dei nuovi media, combinando esplorazioni partecipate e produzione di podcast georeferenziati possa coinvolgere più generazioni.

Si tratta di azioni basate sull’audience engagement per creare le condizioni abilitanti in cui il passaggio dalla testimonianza orale all’edizione web dei geopodcast favorisca una staffetta intergenerazionale. Si ascoltano i più anziani per comporre una narrazione da pubblicare nel geoblog (un format che abbiamo inventato per le Olimpiadi di Torino 2006) e così tradurre un esercizio di memoria in fenomeno rigenerativo che diventa modello d’innovazione culturale».

Nei walkabout la città si attraversa camminando e dialogando. È un gesto antico, ma che oggi assume una valenza politica e sensoriale insieme. Cosa accade quando il cammino diventa linguaggio artistico?

«Più che di arte si tratta di un atto performativo di community empowerment. È di fatto una “radio che cammina”, un processo partecipativo d’innovazione sociale che scaturisce da un background che attinge sia dall’avanguardia della radio art sia dall’innovazione digitale del web 2.0. Il walkabout si ispira agli ancestrali riti di iniziazione aborigeni per tracciare le “vie dei canti” e noi lo interpretiamo come un metodo psicogeografico per estrarre i genius loci dei territori».

Avete scelto luoghi come Tor Tre Teste, Pigneto, Tuscolano, Monte Mario, Villa Flora, lontani dalle geografie del turismo. È la periferia oggi il vero laboratorio del contemporaneo? Cosa ci insegna Roma quando la si guarda dal suo margine?

«Roma ha tanti centri, nell’antichità i luoghi più belli e significativi si sviluppavano lungo le vie consolari  con domus spettacolari. È una città dalle tante facce, come un prisma, è per questo che nella sua dimensione plurale andiamo a cogliere storie da narrare nelle geografie più diverse, in luoghi dove i “paesaggi umani” si rivelano con gradi d’intensità importante. Come al Mandrione dove abbiamo seguito le tracce di Don Sardelli, il “Don Milani dell’Acquedotto”, che negli anni Sessanta salvò centinaia di ragazzi dalla povertà educativa in quelle baracche costruite lungo i chilometri dell’Acquedotto Felice.

Il suono – voci, rumori, echi, racconti – è la materia viva dei vostri geopodcast. Perché proprio l’ascolto, e non lo sguardo, diventa il mezzo privilegiato per conoscere un luogo?

«L’ascolto è la prima percezione, ascoltiamo ancora prima di nascere. L’idea dei Paesaggi Umani nasce da quella dei Paesaggi Sonori di cui trattavano Schafer e Cage. Dopotutto uno dei miei background è quello della radiofonia, con l’esperienza di ricerca fatta negli anni Ottanta a RadioTre e a RadioUno-Audiobox. E poi camminando, usando lo smartphone, ha senso ascoltare podcast e non vedere lo schermo».

Roma è un palinsesto stratificato, una città che vive di rovine e resurrezioni. Come si costruisce una narrazione che dialoghi con la sua memoria senza restarne prigioniera?

«Ci smarchiamo nettamente dalle nostalgie e dagli arroccamenti identitari. C’è una frase di Tolstoj che può ben definire il principio attivo che sta a monte dei processi del performing media storytelling: “Se descrivi bene il tuo villaggio parlerai al mondo intero”. Fa capire quanto sia importante essere consapevoli della propria identità e allo stesso tempo cercare di misurarci con il mondo tutto, senza rimanere prigionieri nella propria memoria, per liberare un’energia d’innovazione culturale decisamente glocal».

Nei vostri percorsi il pubblico non è solo spettatore, ma parte attiva dell’opera. È questa, secondo lei, la funzione più autentica dell’arte contemporanea: restituire al cittadino la possibilità di generare senso?

«Non usiamo mai la parola “pubblico” ci commisuriamo bensì con la molteplicità degli spettatori che diventano co-autori di senso dell’esperienza vissuta nei walkabout. Esiste un’arte dello spettatore di cui mi sono occupato, nel secolo scorso, quando ero un critico militante dell‘avanguardia teatrale. È a partire da questo che Urban Experience delinea strategie per promuovere l’idea di smart community».

Ha spesso definito il vostro metodo come una “scrittura orale”. Un concetto che sembra unire due opposti. È il segno che oggi la parola deve tornare a essere corpo, voce, esperienza condivisa?

«Giusto, liberare il potenziale dell’oralità è un fattore importante per trovare la giusta misura capace di affinare la presenza di spirito, per essere pronti a dare le risposte migliori di fronte a eventi improvvisi».

Raccontare la memoria significa attraversare anche la fragilità e il dolore. Come evitare che il ricordo diventi solo estetica o intrattenimento, e restituirgli invece una funzione etica e civile?

«In parte ho già risposto prima ma preciso che qui m’ispira il “pathosformel” che concepì Aby Warburg, uno dei più grandi esperti delle Arti della Memoria, per definire le formule “dell’arsenale” emotivo a cui attingiamo per interpretare le mutazioni culturali, da sempre, dagli albori della Civiltà. Un approccio che si tende ad attuare con i walkabout nel pescare dentro e proiettare fuori…e salvare il futuro dalla convenzionalità digitale senz’anima, estraendo il meglio dalle nostre radici, mantenendole vive anche nel cloud».

Dopo un walkabout, cosa resta davvero in chi partecipa: la consapevolezza di un luogo, la percezione del tempo o la coscienza di appartenere a un racconto collettivo?

«Nel camminare con i walkabout troviamo spesso una bella congenialità, ci divertiamo, si scambiano battute, raccogliamo le impressioni di quasi tutti partecipanti, emerge la situazione da “sciame intelligente” in cui si è connessi (grazie ai sistemi radio), senza fare il gruppone, liberi di muoversi autonomamente nel cogliere i dettagli dei territori che esploriamo. Non userei il termine “racconto collettivo”, semmai connettivo. E poi ci interessa più narrare: nel suo etimo latino gnarigare che deriva da gnoscere (conoscere) e igare (da àgere: agire), sottende il far conoscere agendo. Non raccontiamo storie, narriamo, con un approccio che non è teatrale ma performante sì, esercitando memoria camminando, conversando e lasciando tracce nelle mappe on line».

Carlo Infante è docente di Performing Media, autore, conduttore radio-televisivo e fondatore di Urban Experience, piattaforma dedicata alla sperimentazione dei linguaggi interattivi. Insegna Tecnologie digitali e Processi Cognitivi a Università Mercatorum e cura progetti di innovazione culturale per molteplici istituzioni pubbliche. Da sempre sostiene che la tecnologia non debba sostituire la presenza, ma amplificarla perché, come ama dire, a proposito dei walkabout radionomadi «Si esplora con i piedi per terra e la testa nel cloud».

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