Un’architettura che parla del nostro mondo |

di - 3 Giugno 2016
La quindicesima edizione della Biennale Internazionale di Architettura, Reporting from the front, a cura di Alejandro Aravena, affascinante cinquantenne architetto cileno, noto per il suo impegno sociale, per la progettazione di spazi pubblici e progetti di edilizia low-cost, vincitore del prestigioso premio Pritzker 2016, l’oscar di architettura, mette in scena una ricognizione delle catastrofi dell’umanità, dagli esclusi ai senza tetto, alle storie di ordinaria follia dei migranti che gli architetti devono affrontare per immaginare nuove soluzioni.
Se questa proposta di un’architettura intesa come bene pubblico, partecipata, inclusiva e giusta, più che bella, senza retorica o posizioni moraliste o ideologiche scontate, sarà condivisa a livello globale lo vedremo vivendo.
Questa proposta “social” eticamente corretta non è una novità e fatica ad essere percepita o condivisa come obiettivo intellettuale dai Paesi ricchi dominanti, ma una ricognizione su chi siamo e dove stiamo andando partendo dai fallimenti ci fa un gran bene.
“Flaneggiando” tra i Giardini e l’Arsenale, si nota che in molti padiglioni non viene mostrata l’architettura in sé, ma proposto il processo di costruzione, partendo dal contesto sociale, culturale e antropologico, dai materiali locali, basato sulla conoscenza e sensibilità per il rispetto ambientale del progetto, in cui le emergenze diventano un‘opportunità per una architettura necessaria, pensata per risolvere problemi complessi.

Il fronte veneziano non celebra l’archistar, il già fatto, ma è impegnata nel  laboratorio delle idee, critica delle utopie come si è visto nella Biennale delle arti visive del 2015 a cura di Okwui Enzewor. In una parola, la biennale di Aravena ci informa sulle emergenze, sui conflitti etici e religiosi, monitorizza causa ed effetto del capitalismo globale, affronta inquinamento, spreco, la massiccia ondata di migrazione, le catastrofi naturali, e ancora la segregazione, le carenze d’alloggi, le periferie del mondo, in sintesi da forma a diritti umani violati, e a una qualità di vita non per tutti scontata. Questi irrisolti aspetti del nostro tempo sono i “mattoni” per immaginare un’architettura a servizio della società, che guarda agli esclusi e ai sud del mondo. Cui oggi si aggiungono intere popolazioni ammassate nei campi profughi, quasi “detriti” umani in attesa di chissà quale ubicazione. Sul fronte veneziano, il messaggio è chiaro si rilancia l’idea di un’architettura intesa come lavoro collettivo, sociale e quindi politico, non partitico, ma piuttosto a favore della polis.
Per esempio, il Padiglione della Germania ai Giardini intitolato Making Heimat, che ha ottenuto dalle autorità il permesso di abbattere alcune parti del suo edificio, costruito dall’architetto di Hitler, Albert Speer nel 1938, come simbolico atto del fare patria e senza barriere, fare comunità all’insegna dell’accoglienza, dell’integrazione contro i muri e le paure, come simbolica spinta alla costruzione di un Europa unita negli obiettivi umanitari e sociali.

Attenzione all’ingresso dell’Arsenale c’è un’installazione CO2 realizzata con lastre di metallo e altri materiali di recupero della Biennale 2015, è un messaggio: come a dire nel riciclo c’è il futuro dell’architettura sostenibile necessaria. La sostenibilità comprende il buonsenso, in contesto in cui la tecnologia tende a dominare l’ambiente, e l’opera Local Identity-Exploring a forgotten resource di Transsolar, nel mezzo delle Corderie all’Arsenale, incanta per poetica semplicità con un ampio soffitto con piccole buchi che rendono visibili una pioggia di luce attraverso un sofisticato effetto ottico.
Una via di fuga dallo sfacelo umanitario, esiste, quella di valorizzare le piccole cose, la capacità di trasformare un’ordinaria necessità in un modello di vita, come propone l’università di Lima di Yvonne Farrell e Shelly Macnamara, (Grafton architets) con un budget “sociale” risolto con ambienti  luminosi e funzionali.

Convince il Padiglione Italia alle Tese delle Vergini, politicamente corretto, dalla grafica pop, dove il gruppo TAMassociati presenta Taking Care. Progettare per il bene comune: cinque team di architetti, accoppiati ad altrettante associazioni, propongono architetture mobili in grado di attivare servizi in contesti difficili. Non si dimentica l’ambulatorio ideato da Matilde Cassani con Emergengy, l’Unità di Monitoraggio Ambientale per Legambiente, la biblioteca nomade Bibliohub di Alessandro Partners con l’Associazione Italiana Biblioteche, questi e altri progetti utili al momento sulla carta ma non impossibili. In bilico tra la consapevolezza del fallimento e la concretezza dell’emergenza, il Padiglione degli Stati Uniti (a cura di Monica Ponce de Leon e Cynthia Davidson, la moglie di  Peter Eisenman), dove si vedono dodici progetti per riqualificare aree degradate di Detroit post-industriale, non solo parole o proposte astratte, bensì architetture ambiziose, anche fuori scala in qualche caso, e stimolanti.
Da non perdere sono i Padiglioni incentrati sulla necessità dell’accoglienza, come quello dell’Austria, della Grecia in primis e della Finlandia. I Paesi dell’America Latina spingono l’acceleratore sulle cause dell’inquinamento ambientale. Brasile e Peru in particolare, con un lavoro sulla foresta amazzonica. Il Giappone vince, nella sua poetica capacità di narrare le sua condizione di densità urbana, con una parata di case delle bambole su grande scala davvero emozionante, che spia gli spazi interni delle case i cui arredi riflettono concept di vita.

Il Padiglione della Polonia piacerebbe a Ken Loach, con un’installazione-inchiesta sulla condizione della vita in cantiere, poi c’è il Regno Unito con la proposta di quattro soluzioni abitative all’insegna di un’economia domestica, tra cui una grande palla gonfiabile dotata di wifi che evoca le fantasie degli Archigram (anni Sessanta). Da non perdere è il Padiglione Irlandese che propone edifici per i malati di Alzheimer, come il Respire Centre di Dublino riproposto per far vivere al pubblico un’ esperienza simile a quella dei malati che hanno perduto la memoria e l’identità. Da vedere è anche il Padiglione
Venezia che presenta Up! Marghera on stage di giovani architetti (studio O.r.ma Officine Riuso Marghera) coordinato da Luca Battistella e uno staff di curatori diversi convincenti nel proporre una riqualificazione sostenibile di questo ex quartiere industriale. Questo progetto è rientrato negli interessi di Renzo Piano e del suo gruppo di lavoro G124  incentrato sulla ricucitura del territorio e il rammendo delle periferie.
In questa biennale non ci sono installazioni multimediali fantasmagoriche, hashtag, giochi virtuali, ci sono invece tanti scritti, manifesti, progetti alle pareti carichi di social, pensieri scritti a mano, il tutto presentato con semplicità e chiarezza. C’è tanto legno, materiali biodegradabili e ovunque c’è l’uomo che racconta come vive il proprio ambiente ripensato su scala umanistica, partendo dalla cura dalle poche e semplici cose che si ha a disposizione, con la consapevolezza che questa Terra non è “cosa nostra” ma un bene di tutti.
Jacqueline Ceresoli

Jacqueline Ceresoli (1965) storica e critica dell’arte con specializzazione in Archeologia Industriale. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente.

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