Vedova tra i giganti. | Antichi e nuovi

di - 31 Maggio 2013
Mentre nell’ordinato e schematico labirinto creato da Gioni all’Arsenale si discute (nemmeno troppo animatamente) quale senso abbia esporre nella stessa mostra le bestie in terracotta modellate da uno schizofrenico e le monumentali barre in bronzo di Walter De Maria, solo per fare un esempio, altri accostamenti in Laguna creano un dibattito e un cortocircuito intellettuale ben più profondo. Sono quelli che vedono per la prima volta l’ingresso dell’arte contemporanea in alcuni dei templi più celebrati dell’arte veneziana del passato: tutti, non a caso, affidati all’opera di Emilio Vedova.
È lui l’alfiere del contemporaneo scelto da Venezia per inaugurare un nuovo dialogo tra passato e presente, questione quanto mai avvincente in una città che cerca continuamente di scrollarsi di dosso il peso di una tradizione spesso troppo ingombrante. E non poteva essere scelto cavallo più sicuro per dare una scossa alle collezioni della Scuola Grande di San Rocco o di Ca’ Rezzonico, dove i visitatori certo non si recano in cerca di arte contemporanea. Nel primo caso, si tratta dell’inizio di cinque progetti che vedranno grandi maestri del nostro tempo a confronto con l’opera di Tintoretto, nel secondo, ci troviamo di fronte ad una delle tante iniziative messe in campo per animare la scena museale della città da Gabriella Belli, che sta dimostrando di saper dirigere con il suo solito piglio deciso e provocante.
Oltre a Ca’ Rezzonico, i Plurimi di Vedova accolgono i visitatori anche lungo il rivisitato percorso espositivo di Ca’ Pesaro e al Museo Correr, in quella Sala delle Quattro Porte che ha conservato intatta la sua struttura originale cinquecentesca. Semplici accostamenti, che hanno forse più a che vedere con la forza architettonica dei lavori di Vedova che con il suo segno energico e dirompente. È invece proprio sul fronte del gesto e del colore che si costruisce il serrato connubio tra i dipinti monumentali dei due grandi maestri veneziani alla Scuola Grande di San Rocco. Da una parte i Teleri che Tintoretto riuscì a collocare all’interno della illustre istituzione lagunare soffiando al suo maestro Tiziano il prestigioso incarico, dall’altra le pennellate informali di Vedova. Le due ricerche si incontrano sul terreno dell’energia e della potenza del colore, che per entrambi ha assunto un significato quasi mistico ed evocativo. Gli squarci di luce che tagliano i paesaggi di Tintoretto e svelano le sue figure, si riflettono nelle sferzate di rosso, giallo o blu che appaiono all’improvviso tra i segni neri di Vedova. Il dialogo diventa ancora più interessante al piano superiore, dove sono accostati degli studi che Vedova ha realizzato da ragazzo, quando, poco più che adolescente, scopre la meraviglia dell’opera di Tintoretto. Si tratta di bozzetti e “copie” delle tele cinquecentesche realizzate dal giovane pittore nelle quali appare immediato il suo fascino per un uso non figurativo del colore, che diventerà assoluto protagonista della sua ricerca nella seconda metà del Novecento. Due esperimenti riusciti, il cui merito va senza dubbio alla Fondazione Vedova e a Germano Celant, che ne cura i progetti espositivi.
Più incerto è invece il risultato della mostra che la Fondazione propone presso la sua sede ai Magazzini del Sale, dove in questi giorni sono esposte quarantacinque opere di Roy Lichtenstein, tra bozzetti e sculture in legno. Pur avendo il merito di presentare una parte del lavoro meno nota del grande maestro Pop, la mostra non sembra rientrare nel ciclo di “dialoghi” messo in campo negli ultimi anni dalla fondazione. Sia l’appuntamento dedicato a Louise Bourgeois che quello, straordinario, con Anselm Kiefer presentavano una tensione e un immaginario in cui si poteva leggere un richiamo al lavoro di Vedova, che veniva in questo modo valorizzato e osservato da nuovi punti vista. Se si escludono certe piccole sculture in cui Lichtenstein si diverte a costruire alcune pennellate astratte in tre dimensioni, i legami tra la sua ricerca Pop e Vedova sono davvero esili, tanto che lo stesso Celant, nel suo testo in catalogo, evita di farne alcun cenno.
Scoprire come nascano le dissacranti installazioni dell’artista americano è senza dubbio interessante, capire come sia riuscito a non tradire il suo segno nel passaggio dalla tela al legno, intuire quanto fosse capace di trasformarsi in architetto-pittore quando doveva affrontare opere in tre dimensioni, è di sicuro interessante. Purtroppo in questo modo viene meno l’originalità della sede espositiva della Fondazione Vedova, dove per la mostra di Lichtenstein si è anche costretti a sacrificare il funzionamento della innovativa macchina messa a punto da Renzo Piano per ammirare le opere del grande maestro veneziano in movimento.

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