May all your dreams and fantasies come true, but first you must pass through the flexible outpost of the state: è la sentenza lapidaria con cui Mathew Kabatoff -giovane media artist canadese al suo esordio in Italia- smitizza il sogno americano, ravvisando nell’aeroporto un simbolo eloquente della psicosi post-11 settembre. Studente presso il Visual Arts Department della University of California (San Diego), Kabatoff ha metabolizzato codici e strumenti della scena artistica locale, che vanta una ricca e consolidata tradizione nell’ambito del film e video making. Il suo ultimo lavoro s’inscrive, infatti, nel solco del video narrativo, denso di critica sociale, largamente diffuso in California, da Barbara Kruger a Louis Hock, solo per citare gi esempi più recenti.
L’ubicazione geografica di San Diego, molto vicina alla frontiera con il Messico, implica la confluenza di elementi diversi in un crogiolo ibrido e meticcio, che vede radicalizzarsi le spinte opposte al dialogo interculturale e alla salvaguardia dell’identità yankee. Pertanto, la dimensione dell’esperienza quotidiana, vissuta in una zona sensibile al conflitto razziale, si riflette nel trend xenofobo crescente su scala planetaria.
Il San Diego International Airport diventa osservatorio privilegiato della tensione a fior di pelle, palpabile in un clima di sospetto, che insegue i fantasmi di sempre. Il taglio, quasi cinematografico, del video registra ed elabora in presa diretta gli eventi che fluiscono nella nicchia ecologica dell’aeroporto, attraverso un software sofisticato, messo a punto durante una lunga fase di ricerca (2002-04).
Al tempo stesso, la visione multiscreen consente la fruizione simultanea di frammenti diversi, che non si coordinano in modo lineare, ma tramite un continuo differimento spazio-temporale. L’aeroporto riveste, dunque, la valenza di un non-luogo, azzerato dall’attesa e dall’assuefazione al suo rituale spossante: uno stand-by, simile alla reclusione, che contraddice totalmente l’istituto della mobilità personale, posto a fondamento della democrazia americana. Tale è lo stato di segregazione al quale è costretta una donna, protagonista anonima di un rapimento che si consuma a margine della storia principale; il dramma individuale, apparentemente decontestualizzato, si richiama alla condizione alienante dell’aeroporto: un regime di libertà vigilata, sottoposto a monitoraggio costante. Analogo è il riferimento al controllo, a cui è impossibile sottrarsi nell’era dell’informazione; le immagini si completano, infatti, di parole tratte dal Patriot Act, dalle dottrine della Homeland Security, dalle liste passeggeri, denunciando la morbosità voyeuristica del Big Brother mediatico. Che lede il diritto alla privacy e impone una condizione esistenziale da sorvegliati speciali.
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