È un’atmosfera sospesa, immota, fuori dal tempo, quella che emana dalle tele di Marco Verrelli (Roma, 1961; vive a Roma): dove lo sguardo analitico dell’artista sembra comporre un catalogo dettagliato dell’habitat contemporaneo (con piglio quasi fotografico), l’adesione alla “pelle delle cose” e il prelievo chirurgico dell’oggetto accentuano il mimetismo, virandolo in chiave surrealista. La precisione impeccabile con cui è registrata la realtà tende, infatti, a decantarla in una dimensione onirica. Come nell’ossimoro magrittiano di “Questa non è una pipa” contrapposto all’immagine iperrealista, i dipinti di Verrelli forzano i limiti del vero per trascendere l’ambito fenomenico. Perciò, l’isolamento del dettaglio, espunto dal suo contesto originario, lo fa slittare precipitosamente nel vortice dell’esistenza psichica.
A tale riguardo, è sintomatico il quadro La trahison des images (2004), che mostra il tubo di una conduttura idrica su un fondo aurorale, bagnato da una luce velata e brumosa. L’alta fedeltà della rappresentazione è turbata dalla vite inspiegabilmente sospesa nel vuoto e disgiunta dall’impianto, veicolo di un flusso metaforico e privo di funzionalità. Il tram racchiude, a sua volta, l’idea di un movimento circolare e ripetitivo, fonte di spossatezza e alienazione. La vettura scivola lentamente nel buio pesto di un notturno romano, rischiarato dai lampioni che accendono di riflessi psichedelici il colorito acidulo delle lamiere. All’interno, si scorgono appena le sagome fantasma dei passeggeri, dissolte nell’atmosfera liquida e sfocata che domina la scena. Il viaggio, dunque, è esaltato in quanto produce uno scarto dalla realtà, aprendo una forbice tra la concretezza del qui-ora e il differimento spazio-temporale dell’altrove. Il trasporto implica, infatti, la condizione ineffabile dell’attesa, suggerita dalla figura che s’inoltra in un tunnel dell’aeroporto verso il Primo orizzonte, titolo emblematico dell’opera (2001).
In questa parentesi ovattata, totalmente segregata dal mondo esterno, l’unica interfaccia possibile è la propria identità. Come in un’installazione a circuito chiuso, più si tenta di raggiungersi, più ci si allontana. L’essenza dell’uomo è, allora, quella di un nomade alla continua ricerca di sé, per cui il viaggio costituisce la dimensione più idonea e familiare. Non a caso, i grattacieli, monumenti della Babele postmoderna, segnano un percorso ascensionale che esprime il bisogno d’involarsi al di sopra di tutto: per affacciarsi al “primo orizzonte”, sulla soglia della coscienza.
maria egizia fiaschetti
mostra visitata il 28 ottobre 2004
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La pelle è sempre pelle, e più è scoperta meglio è!!!! IFIX TCEN TCEN!!!! GRANDE VERRELLI!!!