A metà. Ecco come ci si sente di fronte alle opere di Mike Nelson (1967, vive a Londra). A metà tra il reale e il surreale, tra la storia e la fantascienza, tra il quotidiano e il sogno. Due installazioni in due luoghi diversi: in un ambiente chiuso l’una e in un giardino l’altra. Ma in entrambe è in atto un capovolgimento dello spazio, un interno che si presenta come un esterno, e viceversa. Tutte e due si caratterizzano per la comune atmosfera di mancanza, di assenza.
Alla British School Nelson ha realizzato la grande installazione Agent Dickson at the Red Star Hotel che occupa la sala per l’intera altezza, quasi a voler sfondare il soffitto. Per dimensioni e forma la associamo immediatamente ad una navicella spaziale, magari di fortuna. Coinvolti dall’atmosfera di sospensione, si diventa protagonisti di una storia e viene da domandarsi da dove possa essere passata la “navicella”, se lo spazio è senza nessuna apertura. Osservando meglio, appare con chiarezza che non si tratta di una vera nave spaziale; che in realtà non è nemmeno in grado di volare, perché costruita interamente con materiali di riutilizzo. La luce rossa del neon rende ancor più surreale l’atmosfera, insieme ad un fastidioso ronzio, come di radio non ben sintonizzata, che entra con forza nel cervello.
Avvicinandosi, quell’oggetto strano appare compatto, monolitico, creatosi per congregazione di oggetti: taniche di plastica, sacchi di juta, sportine per la spesa, scatoloni, cassette di legno, giornali; il tutto tenuto insieme da corde di spago, con laboriosi nodi e legature. Al suo interno c’è una piccola stanza. Vuota. Abbandonata all’improvviso, come se l’occupante fosse dovuto scappare in fretta: la radio e la luce sono ancora accese e la macchinetta fotografica è ancora lì. Un’evocativa amaca, tre caschi, un libro, un ritratto di Ataturk -il padre della patria, colui che ha dato avvio alla nuova Turchia, abbattendo l’impero ottomano- una tanica e del pentolame, completano l’arredamento. L’iniziale sensazione di diffidenza viene sostituita da un moto di tenerezza, di fronte alla visione di un posto così piccolo per vivere, per sopravvivere.
Se alla British School il forte rimando cinematografico è centrale, sia nell’atmosfera che nel titolo (l’agente Dickson è protagonista del film “Agente Lenny Caution: mission Alphaville”, di Jean Luc Godard, 1965), nel giardino di Roma Roma Roma è se possibile ancora più esplicito.
Da un televisore all’interno di una stanza, cui non è possibile accedere perché sbarrata, dunque visibile solo attraverso le grate sopra la porta, è trasmesso Unforgiven, 1992, di e con Clint Eastwood. Ma con sottotitoli in arabo. Accompagnato ancora una volta da indizi sparsi. Una scritta con caratteri arabi sopra lo stipite della porta, bigliettini di musei infilzati in un fil di ferro; un tappetino verde, ciabatte e scarpe sparse intorno, catini di metallo e sedioline nel prato, un fermo di legno che impedisce di aprire del tutto la porta a vetri che consente l’accesso al giardino. Di nuovo l’assenza: le tracce di qualcuno costretto ad andare via talmente in fretta da non avere il tempo di spegnere quel televisore e di indossare le scarpe.
daniela trincia
mostra visitata il 2 maggio 2005
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