Anziché il giro del mondo in ottanta giorni, le fotografie provenienti dalla sorprendente e complessa collezione Sandretto Re Rebaudengo, sembrano farci fare il giro d’Italia in maglia rosa. E come nelle macchinette fotografiche souvenir in plastica, in cui dei piccoli visori permettono di ri-vedere i monumenti più belli della città chiusi in una scatola, così queste fotografie consentono di vedere un’intera Italia sparita.
La Storia che ripercorrono queste fotografie, esposte in occasione della sesta edizione di FotoGrafia – Festival Internazionaledi Roma, è innanzitutto quella della fotografia stessa. Ma anche quella dei costumi, della quotidianità di un tempo perduto. Come sottolineato da più parti, l’eccezionalità dell’esposizione sta anche nel fatto che è la prima volta che questa sezione storica della collezione viene mostrata. Ulteriore occasione, questa, per apprezzare la sistematicità e la lucida intuizione della collezionista torinese.
Un centinaio di immagini sono distribuite in sette sale, raccontando la storia della fotografia a più livelli: della tecnica, dell’iconografia e dei fotografi che hanno contribuito a scriverla, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Un’epoca, quest’ultima, che ha largamente discusso sulla legittimità della fotografia come forma d’arte e linguaggio autonomo, e che l’ha posta spesso in un ruolo subalterno rispetto alle altri espressioni d’arte, prima fra tutte la pittura. Ruolo “inferiore” e gusto dell’epoca hanno contribuito a fare in modo che le prime fotografie rappresentassero il principalmente il paesaggio, percepito come accogliente e amichevole. Come i pittori dell’epoca, anche i pionieri della fotografia, “congelano” quello che vedono durante i loro viaggi: rovine, architetture, montagne, valli, edifici storici, ville, città, metafisicamente vuoti per la lunga esposizione.
E quale altra città poteva aprire il percorso espositivo della prima sala, se non Torino? Ed è la Torino “ufficiale”, emblematicamente rappresentata da Charles Marville attraverso Palazzo Madama e Palazzo Reale (entrambe del 1861-62). Ma per i “turisti” dell’epoca, che giungevano in Italia per il Gran Tour, tutte le città ricche di storia e arte emanavano un profondo fascino. E così ecco la classica veduta di Firenze da San Miniato. E di Firenze ovviamente non potevano mancare il Cortile Bargello (di Alphonse Bernoud) e Piazza della Signoria (di Leopoldo Alinari). Seguiti dai luoghi-icona di Roma: il Teatro Marcello -dove ancora tra gli archi vi sono le botteghe di artigiani e piccoli empori-, l’Arco degli Argentari (tra le prime sperimentazioni della carta salata che l’ha resa delicata ed evanescente), l’Arco di Druso, l’Arco di Giano, la Porta San Sebastiano, l’Interno del Colosseo. E ancora, immagini del Foro Romano, del Campidoglio, del Vaticano, della Fontana di Trevi, del Pantheon, del Mausoleo di Cecilia Metella. Suggestiva è la Benedizione di Pio IX (1869, di Gioacchino Altobelli): una piazza San Pietro gremita da carrozze, allineate e serrate, come le moderne automobili parcheggiate nei pressi dello Stadio Olimpico la domenica durante gli incontri di calcio.
Ma una grande fascinazione sui fotografi-viaggiatori era esercitata anche dalla Campagna Romana, con le sue Ville e le sue case rustiche. Segue Napoli -quella del Vomero col tipico pino in primo piano-, Paestum e Capri, per sbarcare nella dolce Sicilia di Taormina, di Selinunte, Agrigento, Siracusa, Palermo. Una Sicilia dove destano attenzione anche uomini e donne col costume siciliano, o pastori, frati, storpi, contadini -spesso soggetti delle stereoscopie. Ma il Gran Tour non poteva dirsi concluso senza visitare anche Verona, Venezia -del Ponte dei Sospiri, di Piazza San Marco, dei Palazzi Pesaro, dei Dogi e Correr di Fortunato Antonio Perini-, Milano, la Certosa di Pavia, Bologna e l’incantata Toscana di Pisa, Siena e Monteoliveto.
daniela trincia
mostra visitata il 29 maggio 2007
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