Roma rende omaggio ad un protagonista assoluto della storia dell’arte contemporanea, Tom Wesselmann (1931-2004), a pochi mesi dalla morte. Quattro grandi sale, quattro temi diversi (Nudi, Nature morte, Fumo, Astratti), più il grande tulipano esposto all’ingresso (Tulip, una scultura del 1983). Anziché impilare cronologicamente un itinerario espressivo peraltro di ragguardevole coerenza, si va dal ’63 ad oggi procedendo per soggetti, onde attutire l’isolamento dei (purtroppo) pochi capolavori della prima ora. L’emozione, però, è garantita: improvvisamente ci si imbatte in uno tra i candidati più credibili nell’assegnazione di un’ideale palma di “nudo del Novecento”, il Great American Nude #57 (direttamente dal Whitney di New York), e a guardarci dentro –il dipinto è coltissimo– pare di poter leggere la sensualità di Matisse e Modigliani con gli occhi, ad un tempo, del “doganiere” Rousseau e di Piet Mondrian. Per non parlare, poi, di una qualità pittorica del tutto imprevista e di come gli anni ’60 siano raccontati fino in fondo grazie a pochi, decisivi inserti (il primo topless, la poltrona maculata, il simbolo della stella in versione yeah-yeah). Quanto al resto, col baricentro spostato ben oltre la maturità, la retrospettiva vive per lo più di colore e di un repertorio fatto di dettagli che incombono come se la spazialità potesse darsi a partire dalla materia. Unghie, capezzoli stilizzati, il fumo che fuoriesce come biancheria dalle grandi bocche femminili: tante immagini che
Dal grande maestro fino all’artista emergente, passando per quello affermato. Compiendo due operazioni del tutto analoghe, Alfredo Jaar (Santiago del Cile, 1956; vive a New York) e Stefania Galegati (Ravenna 1973; vive a Roma) prendono possesso delle rispettive sale declinando all’ennesima potenza il concetto di ready made, per poi animare il tutto attraverso elementi e suggestioni media concerned . Qual è, tra quelle che offre la realtà, la dimensione in assoluto meno “portatile”, la meno decontestualizzabile, se non quella monumentale? Eccoli, allora, trasferiti di peso, da un lato la spianata di un camposanto, nella fattispecie associata alla commovente ripresa video della tomba di Antonio Gramsci; dall’altro, bellissima, una copia romana del IV secolo dall’originale dell’Amazzone ferita di Policleto, con un gruppo di elementi per l’illuminazione da set direttamente puntati addosso.
Stefania Galegati, invece, sembra divertirsi. E si diverte con molto. Posizionato davanti ai riflettori, il gesto risoluto della sua donna-guerriero si fa d’un tratto malioso o, semplicemente, timoroso. Un personaggio indomito e vecchio come il mondo che si ritrova fuori luogo e –soprattutto– fuori di sé, alleggerita dal peso dei secoli ma anche travisata –paradossalmente– dal bagliore disvelante di una raffica di fanali per dive e divette. Un dispositivo per psicofanie di limpida articolazione, un dialogo tra ready-made che si svolge tra i pertugi di un gigantesco pacco postale –un curioso box-esedra in legno, la sola cosa immobile dell’operazione– dove c’è spazio ma non c’è posto, né oggi né un tempo.
pericle guaglianone
mostra visitata l’8 giugno 2005
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Caro commentatore, il cinema costa sette volte tanto e di film memorabili in circolazione non sento l'odore...
Pensaci: con le stesse due orette -e gli stessi soldi- ti fai un giro al Macro e ti bevi una bella birra media.
Grazie, Pericle, dell'ottimo servizio, cosi' eviterò di perder tempo a visitare la mostra....penso che andrò al cinema
la sala Fumo -negli occhi- merita una visita: è l'ultimo capolavoro di comunicazione autoreferenziale prodotto dal MACRO cui aggiungere una nota di background.
Dopo l'inettitudine usata per coprire cospicue elargizioni a parenti e amici arriva il grande manager a sistemare tutto, come? usando schiere di giovani ragazze desiderose di farsi avanti nel mondo del lavoro senza l'assurda pretesa di essere retribuite; poi si sa, davanti a tanta gioia di stagiste a vario titolo, se il pensiero è debole, figuriamoci la carne ...
(1. continua)
il lavoro della galegati è pietosamente ridicolo, e su questo mi sembra che non ci piova. sono decenni che gli artisti spostano altre opere (fatte da artisti che sapevano "fare"), le mettono in altri luoghi dell'arte e magari le montano con altri pezzi creando un dialogo raffinato (joseph kosuth su tutti con "the play of the unmentionable", e a seguire alcuni tra i migliori autori post-concettuali degli anni novanta).
mi sembra che stefania sia arrivata decisamente in ritardo per questo giochino, che tra l'altro è proprio arrivato al capolinea, con buona pace di bourriad, con buona pace della sua abusatissima ed incompresissima "postproduzione".