Flavia Rebecchini ha dimostrato, in questo suo operare d’esordio, di voler lavorare sui luoghi. Infatti l’artista romana, come in ogni intervento site specific che si rispetti, decide di lasciarsi guidare dalla specificità del luogo, dal suo spazio d’azione suggerita, possibile, sino a farla divenire pretesto funzionale per l’idea.
E ciò che Rebecchini deve aver pensato trovandosi di fronte al piccolo spazio dentato della galleria è stato di riorganizzare l’ambiente, per farne una pluralità abitativo-simbolica attorno alla quale riflettere. Una riorganizzazione che si vuole fondata dal gesto plateale (in quanto messa in scena di due materassi feriti da una grande cicatrice centrale e occultati da tre tele-sipari) capace di riempire, quasi nella sua totalità visibile, la superficie irregolare della Galleria che muta così di segno divenendo luogo confortevole, spazio privato, abitabile.
Ma la pace, il calore della sicurezza derivante da una casa finalmente organizzata ed edificata, dura giusto un attimo nella contemporaneità così avara di senso. Quindi, cosciente di ciò, l’artista mutila il materasso, squarcia la materia (paglia) dell’oziosità mitica per farne il luogo arioso d’una rivelazione. Tale epiphaneia viene vissuta biblicamente attraverso l’offerta di tre doni che, nell’installazione, si incarnano in tre tele di garza dipinte con pigmenti e foglia d’argento. Tele che velano, nascondono la tana dove si esercita il quotidiano mutilato, cicatrizzato da una manualità che vuole esplicitamente porsi come cura lenitrice. La Rebecchini difatti, con sapienza artigiana, si applica al tagliare, cucire e colorire, costruendo performativamente una scena che viene tutta riempita da un trittico materico di tele-garze, la cui funzione è quella di evocare il protagonismo del gesto, dell’esserci qui ed ora fisico.
Fisicità necessaria in quanto condizione esistenziale; fisicità che è materia e fascino di essa. L’artista romana mostra di subire in particolare modo tale fascino, nell’evidenza di un fare, il suo, che esige le materie antiche (rame-garze-colore in foglia-paglia sono solo quelle utilizzate in quest’installazione), capaci di evocare memorie d’un tempo passato; pure materie necessariamente da contaminare, talvolta da lacerare, altre volte da mettere al sicuro nel moderno calore plastificato d’un sottovuoto.
E’ proprio questo il senso del lavoro della Rebecchini: offerta, ogni volta diversa, d’un luogo contaminato e spiazzante; un off-limit all’interno del quale vivere un confronto tra i simboli di sempre e l’esperienza che di essi si ha oggi. Confronto suggerito, come s’è detto, da una ricostruzione immaginosa dei simboli di sempre: morte – casa – vita. Una riscrizione creativamente capace di provocare un cortocircuito, per effetto del quale ogni simbolo sconfina in altro da sé, attualizzandosi continuamente.
Redazione Exibart
mostra visitata il 21 gennaio 2005
[exibart]
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