Racconta Virginia Woolf nel romanzo Orlando di come la particolarità dell’omonimo protagonista –che, com’è noto, da uomo si risveglia donna, dopo un sonno di svariati secoli– non sia tanto nella trasformazione esteriore, quanto nell’assoluta, limpida, stupefacente coerenza dell’anima. Ovvero, Orlando è sempre, paradossalmente, Orlando: a prescindere dal corpo, maschile o femminile che sia. Intuizione poetica, questa, di grande suggestione e di straniante semplicità. Ed è un afflato simile, suadente ed enigmatico, quello che attraversa i personaggi che popolano le recenti serie fotografiche di Matteo Basilè (Roma, 1974), in mostra negli spazi della Galleria uno de il Ponte Contemporanea: tableaux vivants in cui parrucche, volti truccati e abiti sontuosi non sono meri accessori di una messa in scena in maschera, quanto elementi sostanziali nella tessitura di un’atmosfera cupa, che affascina e spiazza.
Così Basilè allinea una galleria di creature languide, avvolte nell’incanto smagliante delle composizioni ineccepibili: a metà strada tra l’allure sfuggente e l’evidente, sincera, rivelazione della propria identità.
Ospiti nello spazio intermedio della Galleria due, i Gao Brothers (i fratelli Gao Zhen e Gao Qiang, nati nella provincia dello Shandong, a sud di Pechino, rispettivamente nel 1956 e nel 1962) allestiscono un racconto caustico della Cina contemporanea.
Famosi per la performance Hug, in cui invitavano i partecipanti a stringersi in un abbraccio di quindici minuti, i fratelli Gao proseguono sulla falsariga di un humour surreale, venato di profondo disincanto. Se le utopie, come quella dell’abbraccio universale, tramontano, non sarà una risata, per quanto amara, a salvarci, sembrano dire.
Una per tutte, l’immagine di un enorme armadio aperto, stipato di persone: ridicola ed inquietante, contemporaneamente. Come se le due parole si riducessero a non essere altro che le facce opposte della stessa medaglia.
Chiude la terna di mostre, nello spazio Magazzino, Raimondo Galeano con un’installazione che conclude idealmente un ciclo di dipinti dedicati ai miti del grande schermo inaugurato a metà degli anni ‘90. In quest’occasione l’artista ricostruisce una sala cinematografica anni cinquanta: sedili di legno, laccati di bianco, indicazioni dell’uscita e della toilette, un Totò fosforescente che campeggia, in un atmosfera quasi onirica e la parola fine in sovrimpressione, con tanto d’accurato lettering d’epoca. Riflessione nostalgica sul cinema, tempio delle illusioni e fabbrica dei sogni. Quando era di celluloide.
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Basilè: il vuoto 2m x 2, con annessa spintarella. Lui e gli altri della combriccola romana. Compresi i marziani volanti. Il ponte: la galleria che fa simpatia come una pianta di cactus sulla schiena. Quando ci sarà aria nuova?
Naturalmente è solo tutta invidia.
Basilè
(trans)ex Machina
Il buon
Bonito
del norte
come il tonno
all'olio di Oliva
del resto
sforna
lesto
Oh pelide Achille
Metropolismo?
Transavanguardismo?
io direi
parafrasando il buon (W)vate(r)
"Basilè / uomo di pena / ti basta un’illusione / per farti coraggio».
Caro Basilè... lascia perdere!
Il Re è nudo!
Come farai a rivestirlo?