Tante finestre aperte quante porte chiuse, alcune con tanto di catenaccio. L’obiettivo di quattordici fotografi palestinesi -Abed Muslamani, Fadia Hamdan, Fadi Soliman, Hassan Abu leefeh, Hisham Ghuzlan, Mohammed Azzam, Safaa Issa, Samir El-khatib, Rasha Al Rifari, Soheir Fares, Alia Al-Ghossein, Hisham al-ali, Ibrahim Abdul Hamid, Houssam al-Ali- inquadra il quotidiano in Libano. Come si vive senza un documento di identità, senza diritti? Le macerie, traccia di una guerra recente entrano nel tessuto del racconto, ma gli allievi della scuola di fotografia del campo profughi di Mar Elias (alla periferia di Beirut) preferiscono catturare la “normalità” della vita che scorre.
La scuola è stata fondata un anno fa dall’Ong palestinese Beit Atfal Assomoud e dall’Associazione Per non dimenticare Sabra e Shatila -creata dal giornalista Stefano Chiarini- con il fotografo italiano Patrizio Esposito, che ha alle spalle una lunga frequentazione dei campi profughi palestinesi.
La collettiva Beirut, tempo presente. Quattordici giovani palestinesi raccontano il Libano alla Project Room -nell’ambito di FotoGrafia 2007- nasce dall’incontro tra Esposito e Irene Alison. “Ci interessava lo sguardo di questi giovani palestinesi”, spiega la curatrice. “Il contesto in cui si radica il loro sguardo è quello di una vita da esiliati, perché i profughi palestinesi sono arrivati in Libano in diverse ondate a partire dal 1948 ad oggi. Fin da allora è stato riconosciuto dall’Onu il loro diritto al ritorno nella madre patria. Diritto che di fatto non si è mai realizzato. In attesa di questo ritorno loro vivono lì senza essere cittadini a tutti gli effetti, senza diritto al voto, esclusi da certe professioni, privi di contributi e assistenza sanitaria… hanno problemi perfino a muoversi all’interno stesso del paese. In questi campi le condizioni sono disumane, si vive nella provvisorietà di un’idea di futuro che non esiste.”.
I bambini sono i principali protagonisti di questa visione corale. In mostra -volutamente- le fotografie non sono state attribuite ai singoli autori, proprio per sottolineare la loro unitarietà. C’è un bambino con la palla gialla, altri -in un vicolo- giocano alla guerra con le pistole giocattolo. Guarda dritto negli occhi dello spettatore quella bambina davanti al muro turchese scrostato, dentro la casa, mentre la donna accanto a lei ha il capo chino avvolto nel fazzoletto e il ragazzo, sullo sfondo, si perde nel vuoto dell’attesa.
Alison ha osservato sul posto il lavoro degli allievi -ragazzi e ragazze tra i 18 e i 30 anni- ognuno proveniente da un diverso campo profughi palestinese del Libano. Nessuno di loro aveva mai preso in mano una macchina fotografica. Si sono incontrati tutti i giorni per un mese a Mar Elias. Due i gruppi di lavoro, uno di fotografia digitale e l’altro di video, seguiti da fotografi, videomaker e giornalisti italiani -Patrizio Esposito, Mario F. Martone, Stefano Martone, Paola Codeluppi, Stefano Meldolesi, Mario Boccia- con il supporto organizzativo di Kassem Haina (responsabile di Beit Atfal Assomoud), Maurizio Musolino, Stefania Limiti, Sabina Berra. Tre periodi di un mese di laboratori intensivi con i professionisti italiani: nell’intervallo tra un laboratorio e l’altro i ragazzi hanno lavorato da soli. “Il progetto è italo-palestinese, l’idea però è di trovare sul posto un fotografo palestinese che possa seguire costantemente i ragazzi, e quindi emancipare quest’esperienza dalla tutela esterna italiana perché possa radicarsi nel luogo e camminare con le proprie gambe.”.
manuela de leonardis
mostra visitata il 7 maggio 2007
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