Uno spazio espositivo come Oredaria –tra i più suggestivi della capitale– sembra offrirsi per variazioni sceniche reclamando -imprevedibilmente- una lettura particolarmente attenta della sua caratteristica articolazione a campate. Si esigono così dagli artisti invitati ad intervenire interpretazioni ogni volta adeguate alla sua ardua singolarità: giocando con le parole diremmo vere e proprie prese di posizione.
In questo senso le installazioni di Ivan Barlafante (Giulianova, 1967) -poste a terra o da terra secondo una cifra stilistica consolidata dell’artista- sembrano invitare innanzitutto il visitatore ad abbassare ulteriormente lo sguardo. Giù sul pavimento, dove pietre, sezioni di grossi rami dispersi, comuni diffusori acustici -colti nel loro intermittente sussulto- compongono seducenti agglomerati di elementi. La forza espressiva sta tutta in una luce paradossale che -in modo difforme ma ogni volta abbagliante- restituiscono proprio dal basso.
Così la sabbia disposta nelle nere concavità degli altoparlanti può assumere scintillanti forme floreali o eruttive, primigenie ma in progress e un gruppo di legni si ammanta del bagliore liquido degli specchi, esattamente nel punto in cui ciascuna porzione di tronco ha subito un’amputazione. Fino a suggerire l’impressione, consueta in Barlafante (basti pensare a quanto avveniva, in modo forse anche più scoperto, coi petulanti Periscopi), di trovarsi al cospetto di bretoniani occhi “allo stato selvaggio”, infallibili proprio mentre fanno capolino dal pavimento. Infine, le grosse pietre organizzate in un accentramento saldo ma vorticoso sembrano costipate nel tentativo di celare quel chiarore fermo, di fatto sotterraneo, che contemporaneamente svelano. Quale forma logicamente e fisicamente impareggiabile –da percorrere come in Anish Kapoor più che da scrutare come in Eliseo Mattiacci–, il cerchio traccia ovunque sentieri da affrontare anche a ritroso, quanto mai site–specific in un’ambientazione senza centro come questa: quei “sentieri primitivi della conoscenza” –cui accenna Andrea Orsini nel testo che accompagna la mostra– dei quali, però, i molti -pur rigorosi- lavori a parete appaiono più che altro come mere istantanee.
pericle guaglianone
mostra visitata il 17 giugno 2004
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roba datata caro ivan