Luca Caccioni (Bologna, 1962) dice che tra quello che sembra e quello che è (o è stato) possono esistere relazioni inaspettate. Sembrare, parere, apparire, sono verbi che suggeriscono solitamente l’idea della finzione o dell’illusione. Ma l’apparenza può anche decidere di non ingannare nessuno e di porsi invece come testimonianza di qualcosa che è esistito, come resto di un passaggio, di un passato. Che poi è come dire che l’arte (quello che sembra), la vita (quello che è), la storia (quello che è stato), possono tessere tra loro nodi e rimandi, mantenendo –sì- la propria autonomia, ma arricchendosi reciprocamente.
Nel ciclo di opere realizzate per questa personale romana, Caccioni lascia affiorare forme che si collocano nell’ordine della traccia. La tecnica pittorica -fatta di diafane velature e sfumate opacità su supporti trasparenti- crea immagini evanescenti, simili agli aloni lasciati dal calore del respiro su un vetro, o a macchie di fumo e umidità. Forme che, come le tracce, hanno uno stretto legame con un’immagine reale, viva e portano con sé il racconto dell’azione fisica che sembra averle prodotte: i cinque disegni esposti si intitolano non a caso Con le dita, in linea con il carattere tattile e sensuale dell’insieme delle opere in mostra nei candidi spazi della galleria romana.
Ma delle impronte i dipinti di Caccioni possiedono anche lo spessore temporale e la malinconia, nel riferimento a qualcosa che non c’è e di cui si avverte la presenza lontana, grazie alla possibilità di vedere di ciò che ne rimane.
Animali, torri, simboli misteriosi: anche la scelta dei soggetti dei dipinti rimanda ad un mondo originario, atavico e ad un’attività artistica istintiva e universale.
Come le opere pittoriche, così le minute sculture bronzee esposte in semplici installazioni ricordano oggetti o resti di un passato lontano. Seven Landscapes, one Week (1997-2004), per esempio, è costituito da sette dentature in successione che sembrano rappresentare le tappe dello sviluppo organico di una misteriosa specie animale, un lungo percorso evolutivo che entra in ironico contrasto con il breve intervallo di tempo citato dal titolo (una settimana) e con la durata di elaborazione della serie scultorea (sette anni).
Le forme inventate dall’artista richiamano sempre una storia, o meglio una pre-istoria. Impossibile non andare con la mente ai graffiti, alle pitture rupestri, ai reperti fossili (con cui Caccioni già si è confrontato qualche anno fa in una mostra intitolata La Natura, l’Arte, la Meraviglia): le opere esposte da Oredaria vibrano della stessa espressività ancestrale, della stessa spontaneità primitiva delle testimonianze, artistiche e non, provenienti da quei tempi lontani. Queste -come quelle- comunicano il medesimo senso di immediatezza delle immagini dipinte da un cacciatore primitivo o delle cose create per effetto di un processo naturale, che crescono, vivono e agiscono come un organismo. Ma dietro si riesce comunque a riconoscere l’idea e il gesto dell’artista, allo stesso tempo raffinato e spontaneo. Ispirato da una creatività che è istintiva, poetica e magica.
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