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Fino al 5.IV.2013 | Arte in Giappone 1868-1945 | Roma, Galleria d’Arte Moderna

di - 12 Marzo 2013
Decisamente una magnifica occasione per conoscere l’arte giapponese ci viene offerta dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che propone il Modernismo del Paese del Sol Levante, ospitando opere, tessuti e oggetti d’arredo realizzati dal 1868 al 1945. Giungo alla visione di questa mostra con il bagaglio tecnico di tutti: le famose pagine sull’arte orientale di Malraux e lo scritto di Focillon su Hokusai: praticamente niente. Così decido di mettere a profitto la sensibilità per i segni rimastami, e fare qualche congettura sul concetto di stile e su ciò che gli sta dietro, senza alcun supporto relativo alla cultura giapponese, purtroppo.

Innanzi tutto mi sembra evidente che il concetto di progressività stilistica, come lo intende l’Occidente, è del tutto estraneo a questa cultura. La famosa estetica scientifica, in auge dall’inizio del Novecento, secondo la quale come l’industrializzazione ha cambiato la vita così la tecnica dovrebbe cambiare l’arte, in Giappone non è mai arrivata, per cui il loro stile è senza tempo. In Occidente questo lo comprendiamo molto bene guardando le Madonne su fondo oro del periodo medievale, senza tempo e senza firma. Ma in Giappone è ancora più profondo questo concetto, poiché, sebbene sia uno dei popoli più aggiornati tecnologicamente, ancora nel 1896, quindi in pieno Modernismo, Kobori Tomolo dipingeva dei mostri con tutta l’aria di crederci, non come, per fare un esempio, le Amalassunte di Licini, che contengono anche un bel po’ di ironia.
Allo stesso modo in due pagine del magnifico catalogo (con testi di Ozaki Masaaki, Matsubara Ryuichi e Stefania Frezzotti, curatori), che ospita delle riproduzioni ordinate in modo cronologico, trovo un portafiori geometrico e astratto che potrebbe essere di Pevsner, seguito appena due pagine dopo da un necessaire per la scrittura dove c’è un coniglio che pesta un mortaio, che forse fa parte di una saga, antica come quella della volpe in Occidente. Occorre dunque porre la questione dell’estetica di queste opere in modo completamente differente dai concetti di progresso e sviluppo, che in Occidente durano almeno dal Settecento, e comprenderle attraverso strategie mentali differenti. Per tutto ciò una composizione di fiori può essere decisamente pompier, oppure realistica, nel giro degli stessi anni Venti (mi riferisco alle composizioni di Sakakibara Shiho e Hayami Gyoshu).
Nell’estrema varietà di queste opere, dove i materiali trovano un uso profondamente consapevole e quasi una risonanza virtuosa nei differenti trattamenti, credo che risieda il fascino di questa arte. Si giunge spesso a effetti di impressionante differenza nelle texture, davvero stupefacenti, come se i vari segni che raffigurano l’oggetto fossero realizzati da artisti differenti, con un gusto che potrebbe addirittura essere degno di un collage, se non ci fosse qualcosa che unisce il tutto. Da questa prospettive sono straordinarie le differenze di tratto nelle opere di Kosugi Hoan e di Hirafuku Hyakusui.
A tutto questo occorre aggiungere lo studio e l’amore per il vuoto, così, a parte il piacere di rappresentarlo, occorre considerare le conseguenze della sua presenza in tante opere. Queste giungono a effetti del tutto inediti in Occidente, con un gusto della composizione decisamente molto difficile da inquadrare, sebbene le suggestioni, come il confronto tra la figura di Sogni di Corcos e quella di Matsuoka Eykiü, dallo stesso titolo, non manchino. Credo che sia veramente il caso di profonde riflessioni, incontrando una quantità infinita di domande, e tali da farci riconsiderare il valore e la necessità della ricerca in estetica.    
Paolo Aita
Mostra visitata il 26 febbraio
Prima parte: dal 26 febbraio al 1 aprile
Seconda parte: dal 4 aprile al 5 maggio

Arte in Giappone 1868-1945

Galleria d’Arte Moderna

Viale delle Belle Arti 131 – (00196) Roma

Orari: da martedì a domenica 10.30-19.30

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