Quella che circonda Marco Baroncelli (Prato 1967, vive e lavora a Roma) sembra essere una realtà fatta solo di particolari. Superfluo se questi particolari siano grandi o piccoli, importanti o insignificanti. Comunque una realtà frazionata, sezionata e fissata attraverso scatti fotografici veloci ma precisi. Scatti che mai svelano l’intero contesto. Di qui un leggero senso d’inquietudine e di smarrimento per la difficoltà di determinare dove si trovano quei particolari che scorrono. Questo però non vuol dire che Baroncelli si sia smarrito. Al contrario: tiene ben saldo il filo del suo racconto e della sua personale geografia. Fissa infatti, con seria scrupolosità, delle precise “Coordinate” tramite i “non-titoli” delle sue immagini. Coordinate che danno l’illusione di avere dei punti di riferimento. Illusione perché, sebbene aiutino a recuperare quella visione nello schedario dell’immaginario, una volta ritrovata diventa chiaro che quell’immagine è come una tessera del domino: può attaccarsi -da una ma anche dall’altra parte- alla nuova tessera. E così di volta in volta, il senso e il significato, cambiano.
Otto dittici fotografici, caratterizzati da colori rilassanti e da inquadrature semplici, raccontano dunque frammenti di realtà, attraverso piccoli dettagli fissati a 360°. Un orecchino, l’occhio di un uomo, un ciondolo.
Non sappiamo altro. Non sappiamo se la donna che lo indossa sia ad un ricevimento o a teatro; se il volto dell’uomo è tinto perché aborigeno o attore col trucco di scena; se il ciondolo pende da uno specchietto retrovisore di un’automobile o dallo stipite di una finestra. E immediatamente, viene spontaneo cercare maggiori informazioni nell’immagine a fianco, nell’altra parte del dittico. Ma ancora nuovi dettagli: una griglia per biciclette, l’occhio gelido di un cane, l’asta di un microfono. Questo corto circuito spinge infine ad abbandonare la ricerca del contesto e a lasciare finalmente la mente libera di leggere rinvii e relazioni, creatisi per pura affinità formale. Ricerca che lo stesso Baroncelli porta avanti, perché “affascinato dai rimandi, dai collegamenti, dagli accostamenti e dai legami che permettono un percorso visivo”. Ciò consente al suo lavoro di essere così una ricerca sempre aperta, che si rigenera ogni volta. Anche per essere caratterizzato da diversi piani di lettura che danno una larga possibilità di fruizione e accessibilità. E con naturalezza il dialogo fra le due immagini riesce addirittura ad annullare quell’iniziale leggero senso di disorientamento.
Allora quelle “coordinate” sono piuttosto la disposizione insieme di vari elementi per raggiungere un preciso scopo: quello di raccontare, attirando l’attenzione anche su quelle sfumature altrimenti dimenticate, ignorate.
Più profondo è l’effetto domino in “Caronte’s boat”. Sebbene l’avvio e la conclusione di questo dantesco video slide show siano composti da immagini note, entrambi concorrono ad una buona predisposizione, perché non si viene aggrediti, ma gradualmente accompagnati in un crescendo. E i dittici si moltiplicano quasi all’infinito, incalzati anche dal ritmo musicale di Michael Nyman, autore della colonna sonora, scritta per il film “Lo zoo di Venere” di Peter Greenaway. Scelta musicale affatto casuale per il costruirsi in modo speculare e in aumento progressivo.
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