A proposito di “apocalittici” e di “integrati” (il bel titolo è quello di un saggio sulla cultura di massa, di Umberto Eco, del ‘64), Paolo Colombo invita a “non attribuire in modo assoluto una qualifica piuttosto che un’altra ai vari partecipanti” a questa sua collettiva di primavera. Come dargli torto? Gli artisti visivi sanno benissimo, e da molto tempo, che col piede in due scarpe –apocalittici ma integrati, integrati ma apocalittici– ci si muove anche meglio. Di certo non fanno eccezione quelli cresciuti durante il cosiddetto “sciopero degli eventi”, tra la fine degli anni ’80 e i ’90 (l’espressione è di Jean Beaudrillard), in un lasso di tempo considerato appagato e pacioso benché incastonato tra due crolli (di un Muro e di due Torri: il primo in qualche modo integrante, il secondo in qualche modo apocalittico) che –assicurano gli esperti– non hanno precedenti nella storia.
Più interessante, allora, incalzarli nel merito, chiedere loro quali connotati abbia assunto, oggi, il volto ineffabile di utopia. Perché utopia è anzitutto, per definizione, una gran bella cosa. In più è soggetto doppiamente smarrito, eminentemente “moderno”, luogo che non c’è (ou-topos) ma anche luogo felice (eu-topos), struttura grandiosa e pacificata nonostante l’articolazione che gli è propria sia ascrivibile ad un canone fatalmente centrale (non per niente Michel Foucault si scomodò nella ricerca di termini alternativi, ma a quanto pare il suo eterotopia non ha avuto altrettanta fortuna). Così, premesso tutto questo e facendo attenzione a non scadere in zona vintage (cosa c’è di più kitsch, di più involontariamente “postmoderno”, delle mostre-carosello che mettono in scena il “moderno” in quanto tale?), al Maxxi hanno pensato bene di frugare nel lavoro di artisti bravi e rappresentativi onde dar conto di questi fantasmi di sogni, di queste peculiarità sopravvissute o irreperibili. E il risultato è che il fil rouge dell’utopia, flebile quanto si vuole e srotolato per lo più in absentia, tutto sommato regge. Sugli scudi il concetto di
La mostra è una mostra essenzialmente “a parete”, con poche e sacrificate installazioni ambientali (soffrono un po’ gli interventi di Alice Cattaneo, Elisabetta Di Maggio e Nico Vascellari) e una lunga serpentina composta da tre stretti corridoi in sequenza. Una collettiva in cui la parte del leone pare assegnata ad un côté per così dire referenziale e immediatamente “visionario”, con la gran parte degli episodi a inscenare un’idea scoperta e variamente declinata di apparizione emblematica. Direttamente sul podio, a parere di chi scrive, i crepuscoli quattro-cinquecenteschi avvelenati nel lightbox, di Elisa Sighicelli; i grovigli di meccanismi con velleità di organismi (o viceversa), di Pierpaolo Campanini; i primissimi piani di un “martire” simulacrale, sorta di anchorman da videogame virato al messianico (del ’98, del 2003 e del 2004), di Pietro Roccasalva. Anche altri colpi paiono imbroccare con apprezzabile puntualità un tema così avvincente. E sono le farfalle ciclopiche di Simone Berti; le cupole immaginarie e concretamente interrate di Diego Perrone; le lande desolate e abbacinanti di Sarah Ciracì. E ancora: la strana leggerezza dei cieli indolenziti di Francesco de Grandi; uno “storyboard sentimentale” in salsa folkeggiante, uno e trino, di Paolo Chiasera; gli ori, gli ottoni e i maxischermi da devozione popolare raccontati da Adrian Paci. E ancora: i saliscendi per (sguardi) adulti che Giuseppe Gabellone realizza, fotografa e immediatamente distrugge; le spiagge perfettamente affollate di Andrea Salvino; i bambini improvvisamente accecanti di Monica Carocci. Senza dimenticare Francesco Vezzoli e Patrick Tuttofuoco, ottimi e corroboranti, che in un clima di trepidazione a tratti saturnina se ne stanno un po’ in disparte.
pericle guaglianone
mostra visitata il 30 marzo 2007
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bravo pericle!