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Keith Jarrett | Auditorium Parco della Musica, Roma

di - 18 Luglio 2016
Come fotografare una serata imprendibile, a contatto con l’opera multiforme e di istantanea creazione di uno dei geni assoluti della storia della musica? Lasciandosi catturare, senza la pretesa di fotografare o documentare tutto; improvvisando, esattamente come fa Keith Jarrett (Allentown, Pennsylvania, 8 maggio 1945) al pianoforte, con la stessa concentrazione che chiede al suo pubblico.
Il personaggio arriva prima che il pianoforte inizi a suonare: si sente dallo scrosciante, roboante applauso che accoglie Keith Jarrett nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica, nel concerto-evento di martedì 12 luglio. E lui, agile nella figura come lo è al pianoforte, risponde a questa acclamazione inchinandosi con le braccia protese verso terra, come a raccogliere la concentrazione, per poter dare principio alla sua meditazione sonora.
A un inizio nodoso, che sembra scavare tra memorie clavicembalistiche e ricerche atonali, seguono più aperti influssi e variazioni: il ritmo ostinato del secondo pezzo, sospinto dai passi scanditi per terra dal pianista in piedi di fronte alla tastiera, si scioglie negli accordi maggiori e nei passaggi jazz degli altri brani, in cui accenna a un lirismo e a un romanticismo più pieni. La prima parte del concerto, composta da sette brevi brani sembra solo un’introduzione a quella principale, a qualcosa che deve essere ancora completamente detto.

La seconda parte si annuncia simile, con brani corti, costituiti da trilli e note che riescono a brillare anche nel registro più grave della tastiera, nel suono unico, inconfondibile di Keith Jarrett. Ma c’è la sensazione che, mentre tutta la maestria del pianista si sia dispiegata nel corso del concerto, il suo genio sia stato appena assaporato dal pubblico. E difatti, dopo i primi brani della seconda parte, il pianista lamenta la presenza di flash che lo disturbano: lo dice al microfono, entrando e uscendo dalla sala, cercando di spiegarsi e non solo di scontrarsi con la platea. È noto che siano queste le condizioni richieste da Keith Jarrett durante le sue improvvisazioni, e l’errore di qualche ripresa video o fotografica di troppo non è sfuggito al pianista.
La risposta del pubblico è un applauso di comprensione e di rispetto, e a questo segue la parte più bella del concerto: Jarrett si siede nuovamente al pianoforte, come liberato dal nervosismo, dando vita alla reinterpretazione di un classico, Somewhere over the Rainbow. Nulla di originale, ma suonato in un modo che ha dentro storia, inventiva ed i contenuti del brano successivo, che concluderà il concerto: un’improvvisazione dal fraseggio ampio, romantico e luminoso, che commuove l’uditorio e da dove sarebbe magnifico far proseguire, fare iniziare nuovamente il concerto. Una personalità come quella di Keith Jarrett dimostra quanto l’improvvisazione e la riuscita della serata siano dovute ad un equilibrio, all’intesa raggiunta tra artista e partecipanti alla sua arte. Uno spazio di pura creazione dove l’immagine – passiva e predefinita a cui siamo abituati da selfie e fotografie digitali – lascia lo spazio all’immaginazione.
È lì, alla fine degli applausi eccessivamente rumorosi, della paura di muoversi troppo e del divieto di scatti fotografici, che sono apparsi il vero silenzio, il vero ascolto e la musica di Keith Jarrett, come sempre, straordinaria.
Annamaria Serinelli

Visualizza commenti

  • i concerti "piano solo" di Jarrett sono quanto di più vicino al concetto filosofico contemporaneo di Evento (Ereignis). Ma perché un Evento accada è fondamentale che ci sia un fruitore (spettatore) capace di accoglierlo.
    Da qui tutta la giustificata insistenza di Jarrett sul ruolo degli spettatori, che sono quelli che "chiudono il cerchio" (parole del Maestro) durante un concerto di questo tipo.
    Peccato che in questi casi non ci sia un principio democratico a prevalere: basta infatti uno o pochi spettatori solipsisticamente "indisciplinati" e il cerchio non si chiude del tutto. E quell'Evento meraviglioso di cui siamo testimoni svanisce proprio sotto i nostri occhi, così come è accaduto nella magica serata romana di Jarrett

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