È una bellissima serie di disegni degli anni 1954-58 ad aprire la mostra retrospettiva dedicata ai cinquant’anni di attività di Elio Marchegiani (Siracusa, 1929). Fogli dal tratto sicuro ed elegante, esili impalcature d’impronta informale, costruzioni avvertite su una scrittura dal segno vigoroso, e tuttavia presenze larvali, svuotate di ogni fiducia nel progresso. Si tratta nella maggior parte dei casi di studi preparatori per i più grandi dipinti di quella stagione, in cui la materia s’ingorga in crateri e in vorticosi girali dall’importante rilievo plastico (Materico, 1962). Se pure alcuni titoli di allora sottintendevano la persistenza di una forte tensione emotiva ed esistenziale (Ed è vano ch’io evada, 1958; Alla superficie dell’essere, 1956; La spinta del ritorno, 1958), ad imporsi subito quale interesse dominate la prima ispirazione dell’artista, nei suoi esordi fra Livorno, Parigi e Milano, è il confronto con la moderna tecnologia, con i suoi linguaggi e con le sue ambigue valenze, sia di forma che di contenuto.
Il giro di boa degli anni Sessanta rappresenta così per Marchegiani il tempestivo allineamento alle più avanzate ricerche del New Dada e del Nouveau Réalisme, secondo tuttavia una linea del tutto personale ed eterodossa, talvolta persino in anticipo su alcune conquiste che saranno poi proprie dalle correnti concettuali. È il capovolgimento tragicomico cui la moderna tecnologia pare sia condannata per vocazione, a movimentare la produzione del primo lustro dei Sessanta, quando a cedersi il passo, nell’allestimento della mostra marsalese, sono opere dal titolo volutamente provocatorio, giocate tutte sull’effetto-sorpresa e il disorientamento dello spettatore. Accade nell’Occhio di Dio, “onnisciente” e “onnipresente” fanale d’auto con cellula fotoelettrica pronta a scattare ad ogni passaggio umano, o in Can Can Censura, in cui il giro di chiave nella toppa di una pes
Attraverso l’adesione al fiorentino Gruppo 70, Marchegiani scopre l’happening e la performance, e conquista così uno spazio sociale d’azione per la propria proposta artistica. Memorabile rimane in tal senso l’istallazione realizzata nel ’69 alla Galleria Apollinaire di Milano: 9000 mosche vive intrappolate sotto centinaia bicchieri di vetro. Nel gioco mai interrotto sui codici della comunicazione di massa, e quindi sui linguaggi della stessa storia dell’arte –si vedano le serie delle Grammature di colore ispirate alle tavolozze dei grandi maestri del passato– l’approdo agli anni Ottanta registra il ritorno alla pittura, sia pure spinta, in realtà, sull’orlo paradossale della sua facile “sparizione” su supporti di lavagna. Ritrovate protagoniste dell’ultimo decennio creativo sono invece le poetiche dell’objet trouvé: dentature di squalo, maschere antigas, farfalle e scarabei come testimoni muti e imbalsamati di una modernità ostile e difficile da raccontare.
davide lacagnina
mostra visitata il 24 marzo 2007
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