Non ti danno fastidio le mosche?, grida il titolo di uno dei quadri di
Stefano Cumia (Palermo, 1980). Un cottage rosso appare sullo sfondo di un ordinario paesaggio di campagna, mentre in primo piano l’azzurro cloro della piscina catalizza l’attenzione: sul bordo giace il corpo morto di un uomo. Il sangue rosso vivo sfiora appena l’acqua cristallina.
È il racconto di una delle tante “
microcatastrofi ambientate in paesaggi ‘californiani’”, spiega il curatore Francesco Galluzzi. Una California cinematografica e televisiva, “
assunta come paesaggio mediale”, laddove gli eventi di cronaca sono raccontati con un distacco onirico.
Umorismo, cinismo e casualità sono le cifre caratterizzanti la pittura di Cumia, che illustra il contemporaneo e la sua decadenza in modo intenso, diretto, scegliendo esempi concreti che, a volte, rischiano di risultare troppo espliciti, nonostante le atmosfere stranianti in cui si ambientano.
I titoli, spesso in inglese, ammiccano a quell’immaginario americano da cui il siciliano trae ispirazione: un altrove privo d’incantamenti e ricco di materia. Sono titoli che l’artista sceglie per caso. Attraverso un gioco dadaista, si affida alle parole del vocabolario che appaiono saltuariamente sfogliando le pagine; le frasi che incontra svelano poi il senso dei suoi racconti.
Ed è attraverso uno di questi titoli che Cumia scopre come
Le ombre delle foglie creino strane forme sulle pareti. Nel quadro si sovrappongono tempi e spazi diversi, strati successivi di storia popolati da uomini nudi, uguali a se stessi, o da sagome appena accennate, eteree; anche i paesaggi complicano la percezione dell’insieme: giungla e foresta si alternano, separando le diverse zone del quadro. Alcune figure si distinguono in modo nitido, anche se mai dettagliato, altre invece si confondono con il paesaggio: appaiono come compresse fra i diversi strati di colore.
La casa e l’incidente tornano come tematiche costanti. Un evento esterno interviene nell’ordinario creando caos, morte, dispersione. In questo caso, un aeroplano in fiamme precipita su una dimora di campagna mentre gli abitanti osservano impassibili. Cumia racconta la routine del dramma e ciclicamente costruisce e distrugge la casa, metafora del rifugio, del tempo quotidiano.
Le sue tele sono ricche di materia pittorica, quasi tormentate. In quest’ultima produzione, una nuova vena decorativa riempie le superfici di forme stilizzate: fili, pallini, quadrati, righe prendono possesso degli spazi e rendono l’atmosfera meno densa, sedando la forza del colore.In
Mannira, il racconto diventa più intimo, a discapito della cronaca. Il non detto si carica di mistero e il silenzio immobile della scena è reso dal bianco duro del terreno arido, in cui si muove una pecora smarrita che, lontana da casa, riesce a oltrepassare il recinto.
Come un osservatore esterno, asettico (
I can’t smell anything), Cumia guarda dall’alto gli accadimenti, mentre protetto da una tuta isolante si difende da qualsiasi eventuale invasione esterna.