Girovagare per una città sconosciuta, senza itinerario né direzione. Perlustrarla e provare a indovinarne l’anima, poco per volta. Poi raccontarla, nella forma partorita da un’intuizione creativa. Christian Frosi (Milano, 1973) arriva a Palermo per una residenza, in vista di una personale. È la sua prima volta qui. In mente ha già qualche spunto su cui lavorare; se non fosse per quel vortice di sensazioni precipitategli addosso, subito dopo l’atterraggio. Ogni spunto è risucchiato e immediatamente messo in crisi.
Palermo chiassosa e notturna, nobile e claudicante; Palermo perversa, cupa e assolata; estrema come il bordo più affilato, innocua come una casa conosciuta. Tiepida, fetida, accogliente, odorosa, perturbante, mortifera e vivissima. Frosi cattura tutto questo e lo elabora, sulla base di quel suo modo così sottile di sentire le cose, gli spazi, le geometrie e le dissonanze dei luoghi.
La sua Palermo è fatalmente precaria, deflagrata in mille illogici pezzi, disegnata da luci e ombre, oziosa eppure sul punto di decollare; o meglio, è questo il suo bagaglio da flâneur, la sua risposta a una permanenza breve ma intensa. Non è esattamente il ritratto di una città, questa mostra. Piuttosto, è l’eco di una storia di seduzione.
Il primo ambiente è quasi buio: unica luce quella di alcune torce elettriche, elementi di una scultura leggerissima. Quattro sfere gonfiabili reggono un’impalcatura piramidale, costituita da esili sostegni lignei. È un oggetto misterioso, effimero, sempre sul punto di spostarsi o crollare. È così che l’artista pensa lo spazio e ne risolve spesso l’enigma: costruendo architetture celibi, compiendo azioni senza scopo, utilizzando materiali di recupero, reinterpretando i luoghi secondo forme transitorie e instabili. Più che una scultura, New Title OOOO la stanza favorita è un miraggio o un’idea accesa nel cuore di una notte urbana.
Ha invece la forza di una memoria esplosa la grande finestra frantumata, raccattata a un angolo di strada e poi compressa in una struttura di legno. Un reperto da contenere e custodire, un’accumulazione dinamica emersa da un processo di archiviazione e occultamento.
Poi, ancora un omaggio al senso dell’equilibrio incerto e allo stato di potenziale accelerazione che ne deriva. Alcune sculture in compensato, costituite da moduli a forma di ‘c’ variamente assemblati, sono segni grafici approdati alla tridimensionalità, tendenti all’oscillazione e sdoppiatisi nel proprio opposto umbratile. Presenze che commentano lo spazio – quello della galleria, ma anche quello di certi scorci cittadini, in cui l’artista le ha inserite e poi fotografate – nei termini di una riflessione sulla natura cinetica, cangiante, concreta e insieme geometrica dei luoghi e degli oggetti.
E funziona proprio come un piccolo portrait la scultura che sta in alto: una foglia di palma, pianta tipica del luogo, incastrata su un banale supporto in alluminio, di quelli che servono come appoggi orientabili per le tv. Efficace ossimoro estrapolato dal paesaggio – assolutamente contraddittorio – di una città distesa fra inestricabili eccessi.