Vi trovate sul letto di un lago preistorico prosciugato da millenni, siete circondati da serpenti a sonagli e improvvisamente venite accecati da una violenta tempesta di polvere, che rende difficile anche respirare. La soluzione più naturale che possiate trovare per uscire da questa situazione imbarazzante è organizzare una enorme festa. Anche se qualcuno potrebbe dire che il Burning Man non è solo un party, come non è un concerto, una fiera del baratto e dell’usato o una kermesse d’arte contemporanea. Il Burning Man è un rito che comprende tutte queste cose, oltre a diverse altre e, ogni anno, per otto giorni tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, nel bel mezzo del deserto di Black Rock, a 200 chilometri circa a nord di Reno, attira migliaia di persone, tra le quali potreste trovare non solo Paris Hilton e Katy Perry, che già ci hanno abituato a pose sopra le righe, ma anche Jeff Bezos e Mark Zuckerberg, i cui costumi appaiono solitamente più contenuti.
Dimenticate l’ordinaria maglietta grigia da nerd oppure il completo firmato rosa confetto, perché qui lo stile è tutto e deve tendere all’assemblaggio indiscriminato e selvaggio, eleganti come se il vostro armadio venisse colpito da un’apocalisse nucleare. Nel dubbio vince il minimalismo e anche una mise adamitica va bene, nudi o quasi, almeno con un paio di occhialoni, magari da aviatore della Grande Guerra, che fanno molto cyber punk e proteggono dalla polvere di cui sopra. Però, contando l’escursione termica notevole, un pigiama di flanella mettetelo in borsa.
Eppure il Burning Man non è solo follia, perché racconta di una comunità nata più o meno dal nulla, da un piccolo gruppo di progressisti californiani che, sul finire degli anni ’80, salutavano il solstizio d’estate bruciando un pupazzo di legno di tre metri a Baker Beach, San Francisco. Poi il gruppo si è allargato e quest’anno sono 70.000 i burners che, dal 27 agosto, stanno mettendo a ferro e fuoco la terra arida del deserto. Una città che si costruisce sempre diversa per ogni edizione, assume la forma di chi vi partecipa, assecondandone i ritmi e le abitudini. Ci si costruisce un riparo con tende o qualunque altro elemento vagamente architettonico e si contribuisce a delineare lo skyline della città. Oppure si prenota un posto in uno dei camp organizzati, leggende narrano che quelli dei VIP siano come alberghi a 5 stelle. Quest’anno è il turno di Will Smith e James Corden, arrivati in elicottero. Oggetti e beni di ogni genere si possono solo barattare, gli unici dollari ammessi sono quelli del biglietto, tra i 300 e i 400, da acquistare con larghissimo anticipo, visti gli abituali sold out.
E poi ci si incontra, si partecipa alle decine di eventi a ogni ora del giorno e della notte, musica, danza, meditazione, yoga, terapie di gruppo, senza un attimo di tregua. Ovviamente le distanze tra i ruoli sono ridotte al minimo, la playa, come è affettuosamente chiamato il brullo pianoro riarso dal sole, «è una tabula rasa, una tela bianca sulla quale realizzare visioni fantastiche. Tutti i partecipanti sono inviati a creare arte o a essere arte», avvisano gli organizzatori. Dopo l’omaggio alle macchine di Leonardo Da Vinci, argomento della precedente edizione, quest’anno il tema è la ricerca di un Radical Ritual, un rituale radicale, «che vada oltre i dogmi, i credi e le idee metafisiche di religione», senza eccessive concessioni al misticismo e tentando di rimanere nel gioco, «tra reverenza e ridicolo, fede e credenza, assurdo e sublime». Così, oltre ai vestiti eccentrici, ci si scatena con grandi installazioni ambientali percorribili che si innalzano dalla sabbia, templi, pagode, totem e piramidi, in un sincretismo estetico, strutturale e cultuale che sembra traballare eppure regge, visto che a metterci mano, in fondo, sono artisti, architetti e appassionati di bricolage sotto mentite spoglie. Oltre a queste grandi cattedrali, ci sono anche opere più contenute, come quelle di Francesca NINI Carbonini, artista nata a Milano e che, quest’anno, presenta Kafka 9.0, serie di dipinti ispirati al tema della metamorfosi.
E alla fine non rimarrà nulla, polvere alla polvere, perché tra i principi ispiratori del festival c’è la responsabilità civica, che impone il rispetto di se stessi, del prossimo e dell’ambiente. Quando i giochi sono finiti si deve rimettere tutto com’era, cioè ripristinare l’ordine sovrasensibile del deserto e, se non dovesse bastare la buona volontà dei partecipanti, c’è comunque una squadra appositamente istituita. La regola è che non deve rimanere alcuna traccia di quello che è stato. Solo così si può tornare alla quotidianità e aspettare serenamente il prossimo Burning Man.