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Un frammento salernitano degli anni ’70. Angelo Trimarco ricorda Mario Perniola

di - 10 Gennaio 2018
Angelo Trimarco ricorda Mario Perniola, scomparso il 9 gennaio 2018.
È stato uno studioso raro di estetica che ha mantenuto legami forti con il presente dell’arte. Lo testimonia, all’esordio, nel 1966, Il Metaromanzo, in cui Perniola, nell’analizzare una pratica narrativa che ha il suo criterio di giudizio nel proprio sistema, avverte che «un’indagine estetica rigorosa […] deve esaminare direttamente i testi» non per «spiegare veramente la formazione di un’opera», quanto per «immaginare, partendo da essa, le regole e le leggi dello spirito creatore». Con questa consapevolezza, nel 1971, ne L’alienazione artistica, che considero, del suo intenso itinerario intellettuale, un crocevia teorico imperdibile, ha interrogato, in una tessitura ampia, l’epos e la tragedia dei Greci, l’arte medioevale e quella rinascimentale, fino alle traiettorie dirompenti dell’avanguardia: al dadaismo e al surrealismo, al costruttivismo e al produttivismo.
Oltre a innegabili meriti storiografici – tra l’altro, la sottolineatura dell’epos greco, sostegno del potere ghennetico, e la diversa valutazione del lavoro artigianale medioevale rispetto alla figura albertiana del pittore borghese – va marcata la “critica radicale dell’arte e la realizzazione del significato”, il titolo, quasi programma, del primo capitolo. Da questo punto di vista, neppure l’avanguardia e, in particolare, il dadaismo e il surrealismo si sottraggono alla “critica radicale dell’arte” perché l’avanguardia «è impregnata di teologia e di ontologia». Ciò che importa all’avanguardia «è sempre l’opera, il prodotto, l’oggetto, la cosa» e non «una operazione senza fine, nel duplice senso che essa non ha scopo né termine, che è effimera e provvisoria».
Perniola ha scritto L’alienazione artistica con la mente rivolta al pensiero di Debord, che cita, di cui è stato sodale e interlocutore assiduo. Nel 1972, difatti, pubblica nel numero quattro di Agaragar la monografia su I situazionisti, il movimento che ha profetizzato la “Società dello spettacolo”, come dice, nel 1998, il sottotitolo del testo riedito da Castelvecchi. «Inseparabile dalla negazione dell’arte e dalla teoria critica della società, è un insieme di dimensioni vissute, di interessi, di comportamenti, di pensieri, di azioni, di decisioni e di scelte, tendenti a creare gli ambiti liberi dal condizionamento del potere in cui la creatività individuale e collettiva possa manifestarsi pienamente».
Il 1972 ha incrociato, all’Università di Salerno, dove Perniola insegna estetica e io storia della critica d’arte, il Convegno sul surrealismo, promosso da Filiberto Menna. Perniola ha risposto all’invito proponendo un tema, La trasgressione surrealista, centrato su Bataille. «Ciò che Bataille mette in gioco nelle sue critiche rivolte al surrealismo», osserva Perniola, «è la possibilità stessa dell’avanguardia, cioè di quel progetto storico che si sviluppa da Dadà e dal futurismo russo all’Internazionale Situazionista».
Ho ricordato questo frammento di vita e di studio salernitano, ora che Mario ci ha lasciati, non per dire che eravamo giovani e belli ma per sottolineare come, nel dibattito in Italia, Perniola era già in prima fila. Da questa postazione, poi, ha guardato i miracoli e i traumi dell’arte occidentale e, in anni più recenti, ha rivolto lo sguardo alla “sensibilità estetica” giapponese per la quale il «sentire estetico non è una teoria elaborata dalla tradizione filosofica, ma un modo di essere che permea da un più di un millennio la vita quotidiana». (Angelo Trimarco)

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  • Mario Perniola è stato il pensatore colto e l’anima non omologata della critica d’arte contemporanea. Come non ricordare il saggio “Arte e Carcere” scritto in occasione di un incontro scientifico di taglio interdisciplinare tenutosi nel 1982 a Palermo dal titolo “Oggi l’arte è un carcere?”, a cura del Centro internazionale studi di estetica. Osservazioni e spunti di riflessioni acute e pungenti su: arte e cella, arte e supplizio, arte e prigionieri, e poi, l’artista come criminale, o il criminale come artista, fino a riflettere come l’arte possa anche diventare il carcere per gli artisti e il carcere come impossibilità ad essere liberi e creativi, convenendo che” l’arte è un carcere, perché gli artisti sono dei carcerieri: essi tengono imprigionata una creatività che si potrebbe manifestare nella società con una ricchezza di forme e di espressioni senza paragone maggiore”. Questo, credo, sia il testamento autentico del suo pensiero filosofico sull'arte e sugli artisti contemporanei. Bisogna segnalare anche uno degli ultimi contributi all'estetica contemporanea di riflessioni sulla destabilizzazione del mondo dell’arte e delle strategie teoretiche e poetiche prospettate nel piccolo libro del l 2015 in L’arte Espansa(Einaudi, Torino, 2015).

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