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Un giallo a Napoli. A raccontarlo, Naples three of three, la trilogia cross mediale di Matilde De Feo

di - 25 Ottobre 2017
E se improvvisamente, svegliandovi una mattina, trovaste tutta la città ricoperta da una coltre gialla? Una situazione che non esiteremo a definire kafkiana eppure, osservata da un certo punto di vista, la sorpresa potrebbe anche essere piacevole. Da questo spunto è partita Matilde De Feo per DesertFlower, il primo capitolo di Naples three of three, trilogia cross mediale, tra video, fotografia e installazione, incentrata sullo storytelling urbano che attraversa tutto il territorio di Napoli, dal Vesuvio al Centro, passando per il Porto. Questa prima parte, allestita e presentata al MADRE nell’ambito della sezione “Per un archivio dell’arte in Campania”, ci parla di una bellezza poco visibile, celata nella semplicità di alcuni gesti quotidiani che emergono da una misteriosa polvere gialla, carichi di una nuova evidenza espressiva. A spiegarci meglio è la stessa De Feo, performer, regista, operatrice culturale, con collaborazioni con Milica Tomic, Lutz Gregor, Vanessa Beecroft e Paolo Rosa.
Nella tua storia, tutta Napoli, dalla periferia al centro, viene improvvisamente ricoperta da una stupefacente coltre gialla. Cosa ci può comunicare questo colore?
«Questo colore ci racconta semplicemente una storia, quella della Ginestra Etnea, fiore non autoctono e alieno, impiantato dall’uomo nel 1906, per arginare la lava. È una pianta arborea e molto invasiva, che nell’estate del 2016 ha aggredito il Vesuvio. Non è la ginestra di Leopardi, per capirci, ma un invasore, la cui vicenda è esplosa in forma di notizia su tutti i giornali col titolo allarmante “La ginestra etnea sta cancellando il Vesuvio”. Secondo gli studi di un’equipe di ricercatori della facoltà di Agraria dell’Università Federico II di Napoli, questo fiore, oltre a essere molto dannoso per il nostro ecosistema e per la sopravvivenza delle piante autoctone, ha minacciato di trasformare forma e colore del vulcano. Una notizia visionaria che abbiamo scelto per raccontare la città. E con lo stesso valore ambivalente del fiore, anche le abitazioni hanno trasformato il nostro paesaggio. Siamo pertanto entrati, girando con un iphone e una reflex, in cinque case napoletane, scelte per documentare le dinamiche abitative del centro storico, città di mezzo e periferia. Gli abitanti sono stati sorpresi e ritratti alle prime ore del mattino nei loro spazi, nella loro intima quotidianità, interpretando se stessi e la storia di questo fiore, che come la cementificazione, “aggredisce” la città. È un lavoro partecipato, a metà tra documentario e finzione, che parla di una trasformazione in atto. Le parole chiave del lavoro sono partecipazione e trasformazione. La città cambia, gli abitanti sono testimoni di questo mutamento. Le interviste dei soggetti scelti sul web chiariscono il racconto di ognuno sulla propria casa, tracciando un ritratto partecipato e contemporaneo della città e rafforzando il valore cross mediale del progetto, che vive tra Museo e web. In verità anche Mario Martone e Luca Bigazzi in Morte di un matematico Napoletano scelgono di raccontare la città applicando un filtro giallo all’obiettivo. Il colore esprime il dualismo vita/morte, sole/malattia, i significati relativi alla città sono nell’aria, e questa scoperta è stata particolarmente circolare, perché nel secondo capitolo della trilogia, Mario Martone racconta, in un’inedita intervista, Fabrizia Ramondino».
Quale, tra le varie peculiarità di Napoli, vorresti cogliere e raccontare?
«Quando ho incontrato Andrea Viliani, direttore del Museo Madre di Napoli, non avevo intenzione di raccontare la città. Mi sono proposta come storyteller, come ricercatrice di storie. E’ stato il Museo, dopo qualche settimana, a proporre il tema: raccontare la città metropolitana di Napoli attraverso uno storytelling, io ho accettato. Volevo raccontare la città in maniera diversa, come la percepisco e vivo, allo stesso modo di chi, molti in verità, come me, non s’identificano nelle cose che di Napoli si raccontano sempre. Sono andata quindi alla ricerca di quelle storie sommerse dall’oleografia e dal racconto della violenza, e ho trovato la bellezza, è stato semplice. Ho scoperto Fabrizia Ramondino, scrittrice napoletana scomparsa nel 2008, conosciuta ai più come la cosceneggiatrice, con Mario Martone, di Morte di un matematico napoletano e ho trovato il mio stesso sguardo sulla città nel suo, uno sguardo cosmopolita, estraniato ma anche politico, attento alle vicende sensibili, ai bambini e ai disoccupati. A lei è dedicato il secondo capitolo della trilogia Naples Three of Three, Ramondino’s Apologue, scritto con Marina Dammacco e presentato in questo momento al Museo Madre con uno storyboard bellissimo realizzato da Resli Tale; in sala, in cuffia, un’inedita intervista a Mario Martone racconta la scrittrice in maniera puntuale ed emozionante. È una traccia progettuale del lavoro che sarà sviluppato in forma completa nel 2018. La casa, così come la maternità, il mare e l’impegno politico che mette l’attenzione sull’infanzia, è un tema della Ramondino, uno dei quattro nuclei tematici e cromatici con cui abbiamo deciso di raccontarla, ed è anche il tema di Desert Flower; la trilogia è pensata come tre racconti che entrano in relazione tra loro, ciascuno però con il proprio linguaggio. Il tema della casa ritorna in Desert Flower anche attraverso un insolito viaggio nell’architettura modernista della città, un’immersione realizzata grazie all’architetto Chiara Ingrosso, autrice del bel testo Condomini napoletani. La città privata tra ricostruzione e boom economico pubblicato da Lettera Ventidue. Pertanto i contenuti scelti, il fiore, la casa, il paesaggio, la trasformazione, le pratiche pedagogiche alternative e i sogni della Ramondino, la partecipazione degli abitanti della città al processo di costruzione di una storia, tutto questo racconta Napoli, racconta qualcosa di “grande”, un mondo più che una città».
Il tuo è un progetto cross mediale, che tipo di strumenti userai e cosa vedremo, nei prossimi capitoli?
«Naples Three of Three è una trilogia cross mediale, una sperimentazione tra linguaggi. Il primo capitolo Desert Flower è un documentario che vive nel museo, ma si completa sul web, in verità il valore dell’operazione è piuttosto teatrale, abbiamo messo in scena una storia con gli abitanti della città. Non è stata casuale la scelta di presentarla al pubblico attraverso un allestimento molto particolare. Il fiore, scenografia bellissima disegnata da Renato Esposito, entra materialmente nella sala del Madre spaccando la terra, trasformando lo spazio del museo in un palcoscenico. Ramondino’s Apologue, il secondo capitolo, è una partitura per immagini, scritte leggendo quasi tutta l’opera di Ramondino, in particolare Il libro dei sogni, nel 2018 diventerà un corto animato da un animatore italiano. Il terzo capitolo è tutto ancora da scrivere, ma immagino già potrebbe trattarsi di una storia solo sonora, o, dove il suono è centrale come linguaggio. Tutto questo materiale, tutti questi contenuti sono stati raccolti e realizzati anche grazie al lavoro di una squadra di persone, di cui ho già parlato e al quale va aggiunto il grande contributo di Giuseppe Beneduce, produttore esecutivo, quello di Simona Infante, che ha montato e giallificato il video come se fosse una tela, quello di Raffaele Mariniello, che ha fotografato con me le storie. Lavorare da sola in uno studio mi fa sentire depressa e isolata, ho bisogno di apertura e condivisione».

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