Emma Dante, L'angelo del focolare, ph. Masiar Pasquali
Uscita con gli occhi lucidi. Nemmeno il tempo di ritrovare l’aria, che un collega, incrociandomi nel foyer, mi sorride con un «Addirittura?». Poi, come colto da un improvviso imbarazzo, annaspa in una retromarcia: «Beh…i vissuti, le corde di ognuno…». È in quella piccola frattura, in quel passaggio fra incredulità e giustificazione, che si può misurare l’effetto dell’ultima creazione di Emma Dante, L’angelo del focolare, presentata in prima assoluta al Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. Una frattura che attraversa il pubblico in modo netto: molte donne irrigidite, toccate, trafitte, molti uomini che applaudono convinti ma con quel “bello, ma…” che serve a schermare il disagio.
Emma Dante non indora nulla: la scena si apre già sull’abisso. La donna è a terra, stesa come una cosa fuori posto. Ha mezza faccia coperta da una macchia di sangue secco, una ferita sedimentata nel tempo più che nel corpo. Il marito, in mutande e canottiera bianca, le cammina accanto, anzi, le passa sopra, senza nemmeno vederla, diretto verso il cesso.
Il figlio, anche lui mascolinamente vestito come il padre, lo replica, con una naturalezza che fa più male della violenza stessa. A vegliare, si fa per dire, la suocera: seduta, brontolante, ingabbiata in un siciliano che diventa colonna sonora dell’indifferenza.
Non ci sono segreti: la violenza è dichiarata subito, secca, esposta come un cadavere in piena luce. Nessuna attesa, nessuna progressione narrativa: Dante sceglie di iniziare dove altri finirebbero, cancellando ogni speranza di ambiguità.
Da lì, lo spettacolo non cerca né metafore né attenuanti. Le dinamiche familiari si sviluppano in un rituale di sopravvivenza in una scena quasi vuota, ruotando attorno a un tavolo e una poltrona, oggetti della quotidianità: la donna si rialza perché deve.
L’uomo si impone perché può, maschio forte e alcolizzato fin dal mattino, che insegna al figlio le tecniche di seduzione. La suocera legittima perché “così si è sempre fatto”, giustificando e chiudendo gli occhi, forse a sua volta vittima. Il figlio cerca una via di fuga, un’altra lingua, un modo per respirare ma, in una casa dove i gesti sono ferite e le parole sono armi, la sua alternativa non sopravvive. Finisce così per apprendere l’unica grammatica emotiva che gli è stata consegnata: l’odio verso la madre. Un microcosmo crudele e purtroppo riconoscibile, dove la violenza non è esplosione ma amministrazione quotidiana.
L’interpretazione della protagonista è devastante nella sua economia: non implora, non denuncia, non chiede. Resiste. E questa resistenza muta, fatta di gesti spezzati e posture che cercano un centro di gravità che non c’è, pesa più di qualunque urlo.
Dopo una sequenza serrata di soprusi e automatismi, lei inizia a danzare, sulle note di Alla fiera dell’Est di Branduardi: un movimento che cresce piano, scomposto, come se cercasse un ritmo possibile dopo tutto ciò che è accaduto. Ha il sapore di una liberazione che non consola, di una morte che non si celebra, e porta con sé un gesto minimo di perdono, rivolto non agli altri ma a sé stessa. Un margine stretto, ma reale.
È in quella danza che lo spettacolo si spezza. Non con un gesto estremo, non con un urlo, ma con un corpo che, per la prima volta, si riappropria dello spazio. Tutto il resto, l’uomo, la suocera, gli automatismi familiari, restano ai bordi, fuori scena, come un sistema ormai esaurito. La musica procede e la scena non offre soluzioni, solo una verità necessaria: che sia vita, che sia perdono, qualcosa si è rotto e non può essere ricomposto.
E allora sì, «Addirittura». Perché L’angelo del focolare non commuove: fa male.
E il fatto che molte donne ne escano col nodo in gola mentre molti uomini ripetano «Bello, ma…» dice già tutto su dove si colloca la ferita.
Prossime repliche a Napoli, Mestre, Firenze.
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