Sulle ultime pagine del catalogo Electa, una cartina. Con Giappone, Corea e Cina. È la mappa degli artisti, in maggioranza proveniente da Pechino, Shanghai, Seul e Tokyo. Uno strumento chiaro per comprendere qualcosa in più su una mostra a tratti scompigliata. Quello stesso strumento suggerisce però anche alcuni interrogativi di carattere sociopolitico che riguardano il concetto di Stato-nazione: fino a che punto è giustificabile un impianto basato sul Paese natale degli artisti? Il secondo dubbio è relativo alla scelta dei medesimi. Sono provate le doti di talent scout di Bonami, ma in quest’occasione si assiste ad una certa omogeneizzazione. I video divertenti, le perizie grafiche, il concettualismo kitsch. L’impressione è che la geografia funga da pretesto per il tematismo. Perchénno?, si potrebbe obiettare. Ma allora perché non dirlo?
Veniamo alle opere. Cominciando dalle doti grafiche e immaginifiche. A partire dal coreano Hyunjhin Baik, con lavori che vanno osservati con attenzione per scorgervi strofinacci e conigli a mezz’aria, dal sapore di una Yumi Karasumaru in versione basica. Ho Chul Choi ha un piglio decisamente più fumettistico, con una notevole predisposizione per la concezione di “tavole” che coniugano prospettive decentrate e otticamente disorientanti. D’altra parte, come ha insegnato Guy Delisle in Pyongyang, i forzati dell’animazione sono ormai allocati nella capitale nordcoreana. I maestri rimangono però qualche miglio più a est. Dove opera la giovane Etsuko Fukaya, che coniuga la tradizionale illustrazione del Sol Levante e i tratti inquietanti di certi manga. E anche Teppei Kaneuji, la cui Tower (2006) è un classico esempio di certosinità alla china, al pari con il visionario Ikeda Manabu.
Sul versante del divertimento e della riflessione sul mondo dell’arte, da non perdere gli spassosi balloon di Gook Im. Un esempio: mentre il maestro suggerisce di dipingere con ispirazione, l’esecutore pensa: “My arse is tickling”.
Molti dei video sono allestiti su instabili trabiccoli da ascendere. Il rischio va corso, perché ci si diletterà assai. Kira Kim strappa risate a scena aperta squadernando una ridda di donne di mezza età alle prese con l’aerobica; segue a ruota Aida Makoto, con un Bin Laden in versione hikikomori. Forse non era il fine di Donghee Koo, ma la sua documentazione su una sorta di competizione di pianto autoindotto è piuttosto comica. Mentre è invece seriamente rivolto alla tematica della percezione –volendo, pure al discorso sull’uniformazione richiamato dal titolo della mostra– il video di Yong-Baek Lee, nel quale la camera fissa inquadra pavimento e parete ricoperti da una tappezzeria a motivi floreali. Ma di fronte all’osservatore scivolano anche esseri umani, cauti e mimetizzati.
D’un kitsch quasi insopportabile (mai però come i “paesaggi” in blu jeans di young Choi So) l’installazione di Ding Liu, una stanza con mobili in legno e lampade in ottone, le cui pareti recano un’infilata di dipinti accademici che hanno come soggetto le simboliche gru.
Latita assai la scultura, e tuttavia rappresentano un guizzo d’originalità gli scheletrici paperi di Hyungkoo Lee, allestiti in una scenografica camera oscura (intanto qualcuno si aggira per la sala chiedendosi di chi era lo scheletro coi pattini a rotelle.)
Chiudiamo aprendo uno spiraglio alla bieca popolarità. I cinesi sono copioni? A guardare l’Ink-city (2005) di Shaoxiong Chen si sente l’odor di trementina di Richter…
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macchè paperi sono tom & jerry!!
quale dei due ha il becco?