Le fondazioni d’arte sono ormai una realtà indispensabile per un panorama creativo che si evolve a velocità fino a pochi decenni fa impensabili. L’effetto globalizzazione, per certi versi iniziato proprio sotto i vessilli dell’arte, ha reso necessaria la presenza di strutture sufficientemente meritocratiche, fortunatamente ricche e decisamente dinamiche. Lo prova ancora una volta la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, seguita da una Fondazione Merz che ha proposto di recente uno dei più bei lavori mai realizzati da Sol LeWitt (due wall drawing di straordinaria levità e bellezza, che bisogna vedere prima del loro cancellazione). Dando l’impressione di possedere autonomia intellettuale e velocità di reazione rispetto alle urgenze del mondo contemporaneo, e mentre il Ministro Pecoraro Scanio lancia il suo appello per il 2007 “anno dell’efficienza energetica”, in una Torino alle prese con l’eterna questione della TAV, la Fondazione Sandretto decide di entrare nel vivo dell’attualità glocale dedicando all’Anno Ambiente una serie di mostre.
Le celebrazioni-riflessioni hanno inizio con una triplice personale, stranamente non firmata da alcun curatore, in cui vengono esposte alcune tappe ideali di un Ambient tour che s’inaugura sulla grande duna di sabbia, simbolo della progressiva desertificazione dell’area mediterranea, sorvolata da un mini-dirigibile telecomandato che Christian Frosi (Milano 1973) pone tra grandi virgolette di legno appese alle pareti. In una commistione di stili e linguaggi che vanno dal concettuale al minimalismo passando per un video ispirato al Manifesto Spazialista, concepito come programma sperimentale per la televisione e trasmesso dalla Rai di Milano il 17 Maggio 1952.
Deborah Ligorio crea invece una mappa multimediale dei mari del Sud Italia e quelli attorno alle isole disperse nel Mediterraneo: avamposti ecologici dove oriente e occidente s’incontrano in discipline lontane come la geologia o la biologia marina.
Il peso della materia e della memoria, invece, impregna di sé i mobili e gli abiti di Flavio Favelli proiettati dentro la dimensione del ricordo, dell’immaginario e della storia. In My deep dark blue (Abissi), l’artista fiorentino classe 1967 articola un gioco di spazi abitati da diversi progetti che trovano il proprio nucleo nel progetto India Hotel 870, dedicato alla vicenda del Dc9 precipitato nel mare di Ustica il 27 giugno 1980.
Diventato l’emblema dei misteri che ci circondano, di un “ambiente” del quale percepiamo soltanto pochi confusi dettagli, il Dc9 è diventato per l’artista una “grande e tragica opera d’arte” per la quale ha creato un vestito (habitus) in tela bianca, cucito su misura e sfoderabile: un sudario per conservare e proteggere questo simbolo di un’epoca di cui restano ignote la fine e il principio. Attorno a questo nucleo Favelli espone altri interessanti progetti, come Nazioni (stanza della geografia), Museum, Souvenir e Giardino d’inverno e FFMM.
nicola davide angerame
mostra visitata il 10 marzo 2007
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che recensione anonima. meglio il comunicato stampa
confermo: una recensione anonima ma nel contempo compiacente, dove viene sottolineato un indirizzo curatoriale a discapito della lettura dei lavori (i più interessanti semplicemente accennati)... ps. che brutta l'espressione 'artista brindisina'
per informazione la mostra è curata da francesco bonami.