Verso la metà degli anni ’80 la fotografia diventa un medium interlocutorio, penetra nelle maglie della realtà in modo aggressivo, invadente, diviene lo specchio di complesse topografie esistenziali. La ricerca di Monica Carocci (Roma, 1966) s’inserisce in questo terreno di indagine, che si sofferma su situazioni di marginalità, attingendo a piene mani nel caos della vita. Le immagini, in un rigoroso bianco e nero, palesano una costruzione molto attenta al rapporto tra dettagli e totalità. Sin dall’inizio l’elemento caratterizzante del lavoro è il fatto che la fotografia assume una intensa qualità pittorica. Oggetti di uso quotidiano, bambole di pezza o di carta che evocano il mondo dell’infanzia, sono gli elementi ricorrenti nelle prime opere, costruite sulla giustapposizione dei dati e ritoccate in modo che il risultato del processo di elaborazione non appaia mai definitivo. Successivamente l’attenzione si concentra su paesaggi periferici deserti: porte di città, immerse nella nebbia o nella dimensione indefinita tra sonno e veglia, vie tutte uguali, caratterizzate dall’assenza di vita. L’inquadratura dello spazio aperto esprime lo straniamento metropolitano. La situazione reale è trasferita sul supporto. L’immagine non risulta “appannata”; piuttosto predomina il viraggio cromatico del grigio e dell’avorio con una tensione implosiva che rende il fotogramma duro come certa musica rock.
Di solitudine si parla anche nella mostra Orizzontale, costruita come una sorta di diario intimo, annotazioni di un viaggio interiore prima che reale. La memoria gioca un ruolo determinante. Il ricordo si condensa in momenti che danno vita ad un’intensa scenografia, elaborata mediante una sequenza di immagini di paesaggio: strade, alberi, una raffineria, della quale si intuiscono, più che distinguere, gli elementi architettonici. Ogni riferimento appare reale e immaginario al contempo.
I rami degli alberi sembrano intrecciarsi, per costruire uno strano soffitto, le strade si snodano come un sinuoso dedalo mentale. Carocci interviene dapprima sul negativo, poi in fase di stampa; utilizza esclusivamente carta baritata, che conferisce alla fotografia un’alta resa stilistica, fatta di trasparenza e luminosità. L’immagine pare sospesa, quasi cristallizzata nel tempo, e diventa il momento fondante di un racconto che l’artista definisce “la proiezione del mio pensiero, in camera oscura.”
tiziana conti
mostra visitata il 18 aprile 2006
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