C’è una volgarità che induce ad accettare nel mondo qualsiasi cosa, ma che a volte non è abbastanza potente da far accettare il reale stesso. È possibile sopportare le asimmetrie della vita pur ripudiando, nascondendo e simulando la vita stessa. Attraverso l’emulazione ciclica di simboli e simulacri di simboli. Eppure, nel consenso rinnovato all’esistenza, c’è una sorta di bassezza, un’implorazione sudicia alla quale si sfugge anche grazie alla figurazione. Alla rappresentazione della mancanza. Del respiro mancato. Quel vuoto che impedisce a chiunque di scivolare verso una soluzione affermativa finale, a favore del proprio ciclo di durata. Vista da qui, l’arte non è che una decisione strappata all’essere col coraggio della viltà. L’arte di fare, e di sapere che si sta facendo, per simulare un altro e un altrove, è un modo, il meno spregevole forse, di esprimere il proprio sì. Vivendo come vivono tutti eppure velando, attraverso i trucchi della fantasmagoria, un grande
no. Quella resistenza costante a vedere in quel che c’è e basta una bugia sottile, un’illusione sospesa, appena sopra la vetrata sottile del nulla.
Con
Hortus conclusus,
Gabriele Arruzzo (Roma, 1976) rinnova la propria poetica e muove un piccolo scalino in più. Gli elementi che lo avevano seguito e per-seguito fino a oggi sono virati leggermente. Se in galleria si cerca un Arruzzo completamente diverso, lo si scordi. Le tele sono ancora imponenti rebus formali che si affastellano, formando tante scene interrotte. Si troveranno ancora figure che, incastrate sul recinto della bidimensione, diventano fittissime, a-narrative, componenti segniche. L’andatura sovrapposta, poi, quel timbro senza fretta della composizione, imprime nuovamente ai soggetti un ruolo didascalico. Mentre l’enigma della perfezione e le sue vanità di preteso realismo fungono ancora come un
trait d’union.
La vera novità si rivela nella semplificazione. La preponderanza delle forme, sottolineate dal tratto plumbeo del pennello, non sono più una struttura che impedisce a soggetti e a colori smaltati di mischiarsi. In questa nuova serie di lavori, Arruzzo sparge il proprio
hortus, il proprio
humus, e coltiva la pace della simmetria. I verdi verdissimi, gli azzurri pastello e gli incarnati cerei esistono ancora, a sottendere l’intera struttura dell’opera, senza però guidarne l’esistenza. La mano dell’artista desiste dal caricare con urgenza i propri lavori, appesantiti, altrimenti, d’inutile, instancabile flemma copiativa.
Se prima, dunque, si moltiplicavano lupi, alici-nel-paese-delle-meraviglie, candele, palombari e lineamenti grafici, oggi compaiono le prime ombre chiare. Le ombre della non esistenza. Teschi, cuori trafitti, cristi deposti senza volto e occhi massonici. In una distesa contrita e sempre più linearizzabile di un racconto che, con un respiro diverso, muore meno.
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jo jo jo
:)