I soggetti di Marino Marini (Pistoia 1901 – Viareggio 1980) sono ricorrenti come sogni: cavalli e cavalieri, giocolieri. Archetipi e prototipi che senza scomporsi subiscono il rituale della variazione infinita. Marini tratta lo spazio senza violentarlo, facendone scaturire forme che lo possiedono dolcemente. Marini l’etrusco: ascendenza rivendicata e testimoniata in Piccolo nudo (1929) e Giocolieri (1932). Ma non è solo l’Etruria. Mai si è notato che il riferimento va anche ad altre culture “arcaiche”, in contrapposizione al modello classicheggiante greco-romano: si osservi Piccolo cavallo (1955-56), gioiello in oro che pare provenire direttamente da Micene.
La Pomona è una dea ancestrale della fertilità, è ricettacolo sacrale. Le sue forme generose e goffe si trasferiscono anche in altri soggetti, come nella Piccola danzatrice (1944), ove il trattamento “innaturale” delle articolazioni ricorda certe Cariatidi di Modigliani. Altro mondo amato dall’artista, il teatro: dal 1920 fino alla morte è una
Ma il motivo distintivo di Marini è il binomio cavalli-cavalieri. Raggiunto un equilibro magistrale, la simbiosi perfetta, iniziano a sfaldarsi, si dissolvono e collassano l’uno nell’altro. Diventano Miracoli, ove “l’idea parte fino a distruggersi”. Senza però giungere all’astrazione pura, solo a un’estrema “semplificazione”, come in Guerriero (1959) o in Piccolo grido (1963). Una passione che esplode nel 1934, quando l’artista visita a Bamberg il monumento equestre di Enrico II: un’illuminazione gotica, che in Marini perde tuttavia ogni eroismo per assumere la drammaticità di un mondo. Cavaliere (1949-50, insieme al dipinto omonimo del 1955) ha già una tragica allure arcaica: il cavallo, dalle costole in evidenza, volge il capo verso il cielo (memore di Guernica), il cavaliere ha un’aria fanciullesca e orrendi piedi mozzati. Con Piccolo miracolo (1951, e la tela Cavallo e cavaliere pour San Lazzaro, 1971), la forma si sta dissolvendo e l’idea di un’inesorabile processualità intensifica al massimo il dramma. Senza voler fare della pessima psicologia dell’arte, non possiamo dimenticare che una netta frattura stilistica interviene con l’esperienza terribile della guerra: detona il colore (La parata I (1950), olio debitore dell’espressionismo tedesco) e la consapevolezza dell’orrore. La statua equestre del 1959, in una piazza dell’Aia, riporta sullo zoccolo un’amara frase dell’artista: “Si costruì, si distrusse e un canto desolato restò sul mondo”. Si è dunque logorato il “moderno umanesimo” di Marini, come aveva scritto nel 1942 Luciano Anceschi, e al suo posto interviene la disillusione: “Io aspiro a rendere visibile l’ultimo stadio della dissoluzione (…) dell’uomo di virtù degli umanisti”.
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