“Devo aver sognato troppo la scorsa notte”, al Mars Hotel. Il risultato, o meglio la concrezione trasudante di questa considerazione di Jim Lambie (Glasgow, 1964) è esposta nella vetrina della galleria di Franco Noero. E non poteva che essere un materasso che cola pittura azzurra. Se dunque ci si aspettavano i soliti pavimenti dall’effetto optical, com’era avvenuto per esempio alla scorsa triennale della Tate Britain e alla collettiva Unplugged di Trento con ZoBop, o ancora nella stanza del Filatoio di Caraglio, si rimarrà delusi. Il lavoro presentato in quest’occasione è per certi versi più assimilabile ad AC/DC, esposto nella rassegna sui Moderni al Castello di Rivoli. D’altronde, com’è stato notato recentemente, Lambie appartiene a una compagine di Young British Artists che è assai più introspettiva di quella assurta agli onori della cronaca in seguito a Sensations. E in questo lavoro mette in mostra palesemente la sua articolazione al contempo ludica e riflessiva, certamente complessa, specie se non ci si accontenta della prima impressione spettacolare comunicata dall’allestimento.
Tornando dunque alla galleria Noero, ci si imbatte innanzitutto nell’effetto specchiante di un muro forato, costruito con mattoni riflettenti (Off the Wall). Sulla sommità, una scarpa da ginnastica è stata dipinta con una pittura nera, che cola lungo il muro spandendosi sul pavimento. Il lavoro che dà il titolo alla personale, Mars Hotel, prende invece avvio dal muro bianco sul quale è stato applicato un grande occhio vinilico: dalla pupilla parte un cavo ricoperto da nastro adesivo nero che si attorciglia, inglobando due sedie e terminando discretamente in alcuni pezzi di bigiotteria femminile. Oltre agli occhi e alle scarpe, l’elemento ricorrente sono strutture cubiche composte da pezzi di porte poste le une sulle altre, sulle quali sono applicate calzature (My generation) o forsennati collage di occhi (Musclebound), o ancora glitter multicolore che si spande su una colonna circolare (Machine).
Se dunque l’aspetto più onirico e sfavillante domina negli spazi di Noero, il côté più scuro si esplicita da Sonia Rosso, dove oltre a My generation -probabilmente il pezzo meno interessante dell’intera mostra- si assiste a una tessitura di sguardi che si librano sulle pareti, collegati dall’inevitabile nastro adesivo che si staglia sul candore delle pareti, incorniciando occhi d’ogni sorta e collegandoli tra di loro. A formare un pattern caotico, sì, ma assolutamente coinvolgente (Psychotic reaction).
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