Tutto cominciò a Davis, in California, nel 1964. In un ateneo noto per gli studi agrari, Bruce Nauman (Fort Wayne, Indiana, 1941) studiava arte, seguendo le lezioni di William T. Wiley. A quel lustro, fino al 1969, è dedicata la personale allestita da Carolyn Christov-Bakargiev nella Manica lunga del Castello di Rivoli, unica tappa europea di una mostra curata da Constance M. Lewallen del Berkeley Art Museum. La tesi è presto esposta: in quegli anni “Nauman sviluppò buona parte del suo vocabolario artistico”. Ricostruirne dettagliatamente, filologicamente il dipanarsi consente di leggere in maniera accurata l’intera produzione successiva.
Un’impostazione di tal genere ha due limiti. Primo: si rivolge a un pubblico di “addetti ai lavori”, che conoscono almeno sommariamente l’opera di Nauman. Secondo: il rischio in agguato consiste nel proiettare sugli anni successivi un’ipotesi di lavoro che riguarda la produzione giovanile. In altri termini, si sarebbe potuta “far tornare” la tesi col classico gesto ermeneutico che sostiene di pre-vedere, mentre in realtà si fonda sul proverbiale “senno di poi”. È d’altronde questa una caratteristica che informa di sé ogni lettura continuista e/o periodista della produzione d’un singolo artista intesa come corpus, se non omogeneo, almeno facente capo a un’individu
Non è d’altronde un caso che lo stesso Nauman abbia collaborato alla realizzazione della retrospettiva. Coadiuvando la ricerca di pezzi che non si vedevano da anni, talora decenni, o che mai s’erano visti. Per esempio l’opera che dà il titolo alla mostra, datata 1966, una targa in piombo concepita per essere affissa sul tronco di un albero, la cui corteggia avrebbe progressivamente coperto l’iscrizione; e le ceramiche non smaltate Cup and Saucer Falling Over e Cup Merging with Its Saucer, entrambe del 1965, esposte alla mostra di fine corso l’anno successivo alla realizzazione. Senza dimenticare il lavoro in vetroresina e lattice, d’una magnifica bruttezza, come ha sottolineato Christov-Bakargiev. E finanche quelli al neon, dal celeberrimo The True Artist Helps the World by Revealing Mystic Truths (Window or Wall Sign) (1967) all’Untitled del 1965, che da solo basterebbe per comprendere l’etichetta di post-minimalista che a Nauman è stata affibbiata. E soprattutto per saggiare quanto sia insufficiente.
Accanto alle opere plastiche scorrono disegni e schizzi, brochure e lettere, documentazioni talora minime, che per ciò permettono di studiare a fondo la genesi di lavori straordinari. (Meritano almeno una citazione le frasi che aprono e chiudono il saggio di Robert Storr in catalogo, altro strumento di approfondimento di altissimo profilo: “Il disegno, tradizionalmente, è sempre stato un mezzo per descrivere il mondo. Nelle mani di Bruce Nauman, è diventato un mezzo per pensarlo”; “E cosa significa fare attenzione? Significa pensare con i sensi e sentire con la mente”).
Non mancano naturalmente i video, alcuni certamente noti ai più, altri inediti. E ancora il First Hologram Series: Making Faces (B) (1968) e le cinque screenprints degli Studies for Holograms (Squeezed Lips; Pulled Cheeks; Pinched Lips; Pulled Neck; And Pulled Lower Lip) (1970). Infine, a chiudere un percorso che si sviluppa con crescente ansietà – cadenzata da momenti ilari: il filmato muto del 1965 circa Sound Effects for Manipulating the T Bar e il cortometraggio Fishing for Asian Carp (1966), realizzato con William Allan –, l’installazione Performance Corridor (1969), antro praticabile che consente al visitatore di confrontarsi direttamente con l’azione dell’artista, documentata dal video che inesorabile fluisce accanto.
Dopo oltre trentacinque anni, Nauman torna dunque a Torino. Dove, nel 1970, era fianco a fianco con arte povera, land art e arte concettuale.
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