È l’Africa dell’energia e del colore, ma non è l’Africa delle bandiere. Non è l’Africa dell’alli galli o dell’esotismo coloniale. È l’Africa di
Pascale Marthine Tayou (Yaoundé, 1967). È la ritrascrizione dell’Africa. È l’Africa ai tempi del villaggio globale: niente confini tracciati sulla terra. Con un’operazione che un po’ ricorda il
Meschac Gaba visto in galleria giusto un anno fa, Tayou si prende gioco di ciò che in Occidente “fa esotico”. Con una moltitudine di totem in cristallo, bizzarramente agghindati con i più improbabili ammennicoli: cancelleria, piumaggi, gessetti colorati. È l’Africa che guarda noi, e tutti quei materiali di recupero contribuiscono a innescare una vera e propria guerriglia di significazione. Parola d’ordine: riciclare, resignificare, per poi ripensare (noi).
Poi, tra cartoni, polistirolo espanso, pallet e nastro adesivo si arriva al grande spazio della platea. Tayou lo dedica al tema del lavoro.
Human being è un vero e proprio villaggio con capanne fatte di scarti urbani, ripari di fortuna infestati da schermi lcd, proiettori e casse audio. Dalle finestre si possono sbirciare immagini delle più diverse pratiche lavorative dai più disparati luoghi del mondo. Nello stesso villaggio, l’addetto belga alla lavorazione dei neon lavora fianco a fianco al meccanico africano che ripara a mani nude vecchi camion scassati. Ma tutto è mediatizzato. Le barriere del qui e ora sono abbattute. E lavorare è semplicemente
umano.
Spazi
borderless, quindi. Tayou ripropone infatti anche il “luogo nel luogo”, la negazione dei confini.
Le cercle de la vie delimita sì uno spazio, ma soltanto con una fitta e penetrabile serie di foulard rossi. Senza marcare né segnare.Un percorso che comunque iniziava con le grandi composizioni di gessetti colorati, come quelli della maestra. Regolarità (della disposizione e delle cornici) e disordine (dei colori). Per un’energia che scaturisce dall’uniformità sottostante.
Kan Xuan (Xuan Cheng, 1972) invece non c’è. Sta inseguendo sé stessa, senza successo, in una qualche anonima metropolitana cinese. Un non-luogo per eccellenza per un’azione che vuol ricordarci quanto l’identità individuale sia relazione e non certo mera autocoscienza del sé.
Kan Xuan! Ai!, quasi un monito per il centralizzato-turbo-capitalismo cinese. Sei i video in mostra. Con
Object e
100 Times, le realizzazioni più mature, che sempre maggiormente indagano il tema dell’esperire. In una sospensione dei sensi che rimbalza, senza fretta, tra immagini e suoni.
Riferimento sonoro e tracce visive anche per
Jorge Macchi (Buenos Aires, 1963). All’Arco de’ Becci, insieme a
Edgardo Rudnitzky, mette in scena una poesia di Idea Vilarino. Alcune lastre in vetro giustapposte fanno da sfondo per la proiezione del testo del componimento. Una successione disordinata di caratteri, che lascia intravedere il tutto ma che in realtà assomiglia a una sconclusionata lezione di fonetica. Con i suoni che, all’apparire di ciascuna lettera, risultano anch’essi giustapposti, per un effetto straniante ed etereo.
Il triplo cocktail in bocca è ben equilibrato, di buon corpo e struttura.