“Orto”, sequenza di quattro semplici lettere ad esprimere cosa? Certo non un unico concetto, ma un soggetto allargato che con duplice fonema si espande per tutta la nostra cultura e oltre, dal plebeo “va’ a zappare l’orto!” alla summa dell’elitarismo, quell’hortus conclusus dell’umanesimo più raffinato. E così nelle stanze della nostra memoria si sovrappongono immagini, e sfumati retaggi scivolano via via dall’agricoltura alla filosofia, alla mistica religiosa con certi giardini
Ma gli orti di Gianni Caverni niente hanno di agricolo, sono figli della nostra modernità, operazione fortemente intellettualizzata fra arte povera e concettuale: “l’orto come metafora dell’attenzione, della crescita, della memoria”. Così l’artista nel delizioso catalogo su cd a corredo della mostra. E se l’odore della terra, il suo contatto fisico ci trasporta ad un’esperienza materico-sensoriale che coinvolge la nostra sfera emozionale, un che di troppo pensato, un qualcosa come di enunciato ci blocca di fronte all’istallazione con dodici piccoli David michelangioleschi dai piedini finto marmo conficcati nel terreno, concentrato di paccottaglia turistica mordi e fuggi che tanto ci affligge. Cultura “coltura”? E che cultura? Che radici? Ardua impresa un’arte di contenuti che non sia meramente declaratoria; ci vuole la zampata del genio, e forse anche per questo nel contemporaneo non è molto praticata. Ma dove Caverni riesce felicemente a sorprenderci, espandendo una sua compiuta poetica commossa e partecipata, è nelle stampe digitali montate su forex. Qui l’artista ci fotografa orti più intimi e privati, L’orto di T o quello di D, e qui il profumo della poesia arriva forte e intenso, con quel tenero gesto di accogliere in grembo,
Valeria Ronzani
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