L’esposizione coincide con un importante lavoro di ricerca ed inventariazione svolto dal museo e dall’Archivio Melotti di Milano, lavoro che sfocerà in un catalogo ragionato dell’opera in ceramica dell’artista la cui uscita è prevista per il prossimo settembre. La mostra e il catalogo di Rovereto sono infatti a cura di Antonella Commellato e Marta Melotti, un ampio e approfondito saggio è firmato da Massimo Carboni, docente di estetica all’Accademia di Firenze.
Di Melotti conosciamo la produzione scultorea, oscillante tra l’astrattismo e il figurativo, realizzata prima della crisi bellica del ’43 e quella degli anni ‘60, che diviene decisamente astratta in filiformi sculture integrate da minuti pezzetti di stoffa colorata.
La produzione presentata in questa mostra risale invece all’immediato dopoguerra. In quel periodo iniziò a creare opere in ceramica su commissione per sopravvivere e per ricominciare a lavorare, dopo aver visto lo studio e le sue opere distrutte dai bombardamenti sulla città di Milano. L’acquisto di un forno a muffola gli permisero infatti di lavorare con la ceramica, materiale che considerava un pasticcio in cui sotto sotto c’è sempre un piccolo imbroglio e che ha utilizzato sempre per necessità e per contingenze esistenziali. Viene allora da chiedersi se avrebbe prodotto questi splendidi lavori, anche senza trovarsi di fronte a forti problemi economici. Forse no. Comunque è importante valutare criticamente anche questa produzione per comprendere meglio l’intera sua opera artistica. Melotti produsse infatti in ceramica costretto dalla crisi economica, ma pur sempre lavorò a modo suo, facendo una sperimentazione estrema, al limite della stessa materia. Si sentì libero di muoversi tra il fare arte e il mestiere dell’artigiano e creò anche oggetti funzionali, che Carboni identifica come oggetti/soglia.
Se però la vita si è presa gioco di lui e l’ha costretto a utilizzare l’odiata ceramica, lui si è preso gioco della ceramica, trasgredendo anche nelle forme. Ha creato vasi tanto alti da non poter contenere fiori, tazzine di caffè instabili per un qualsiasi cucchiaino, campanellini per chiamare la servitù che… non suonano.
In realtà lo scultore trentino ha ampiamente mutuato l’ironia antica di una cultura mediterranea perduta, in cui la forma dell’opera rispondeva a una precisa simbolicità. I vasi sono a forma di luna e di sole, ma anche a forma di gatto, di gallo, di pesce e di pavone. Egli ha riproposto questi simboli a una cultura moderna, capace di comprenderne solo l’aspetto poetico e spinta per questo a interpretare lo stile come barocco o rococò.
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