Avanguardia e restaurazione sono i due aspetti che caratterizzano le tendenze artistiche del periodo storico che va dal 1920 al 1940: da una parte una prorompente spinta alla modernità, alla civiltà delle macchine, alla dissoluzione elettrica del Futurismo; dall’altra l’albore di un nuovo classicismo, fatto di sogni imperiali, solidità plastiche, ritorni all’ordine. Tendenza, quest’ultima, preferita presto dalla retorica di regime, che –sia ben chiaro- nulla inventò, limitandosi a coinvolgere nelle proprie creazioni ideologico-propagandistiche tendenze e poetiche già in atto. Sfogliando riviste come Valori Plastici (1918-1921), risulta infatti evidente la precocità di questo ritorno alla concretezza delle cose rispetto alla presa di potere di Mussolini, che si limitò a condividerne parte degli intenti e soprattutto ad indirizzarne gli esiti.
Questo ritorno all’ordine sviluppa in scultura, pur in una diversità di soluzioni, temi e intenti spesso comuni e senz’altro più omogenei di quelli portati avanti negli stessi anni in pittura, dove in una stessa mostra del gruppo di Novecento si potevano trovare le soluzioni pressoché opposte di Sironi e Tosi. Profonda è soprattutto l’immersione nel tema della classicità, una classicità che coinvolge le forme come i contenuti, che presenta un’umanità idealizzata, sia essa quella pura, neogiottesca, come nelle opere di Giacomo Manzù e soprattutto di Marino Marini, sia essa quella che incarna un ideale di forza e potenza, come nel massiccio e retorico Pugilatore di Romano Romanelli. Una classicità che è anche sogno d’impero, e Mussolini non tarderà a proporsi come novello Augusto, seppur i suoi stucchevoli fasti ricordano più i retorici affreschi del Tiepolo a Würzburg per il decadente Carl Philipp von Greiffenklau che la ritrattistica di autentici condottieri d’imperi. A tal proposito vanno osservate le raffigurazioni della Vittoria: quella mastodontica di Lina Arpesani, tema per eccellenza classico, alla quale si affiancano le raffigurazioni di statue equestri, come quelle dal vago primitivismo di Libero Andreotti, o quelle plasticamente più mature di Arturo Martini. Una classicità questa che, pur nelle forme della modernità, non trascura il dettaglio archeologico, come nella base istoriata del David di Mirko Balsaldella, né è dimentica di funzioni commemorative particolari, come quella funeraria. Caso a sé la stanza dedicata a Othmar Winkler, artista nordico anche nell’uso dei materiali –qui vediamo le sue opere in legno- e dove (apriamo una sottile polemica) la presentazione minimalista delle didascalie ha raggiunto il culmine dell’astrusità.Squisitamente moderni invece ilSenza Titolo di Fausto Melotti, nel quale
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