L’arte racconta il lavoro, dalla campagna al cielo pesante delle città. E l’occasione è il Centenario della Cgil, fondata a Roma il 29 settembre del 1906 e a Milano il primo ottobre dello stesso anno.
Millet, Fattori, Fontanesi, Greppi e quindi Manet, Mauve, Lavieille, Maso Gilli, Bracquemond, Lhermitte, Le Couteux, Pagliano, Dupont, Bianchi, Liebermann aprono la mostra: i curatori -Patrizia Foglia, Chiara Gatti e Luigi Martini- hanno infatti collocato le opere in una sequenza storica per dare il senso dei cambiamenti della storia sociale recente. Nel prezioso catalogo che accompagna la mostra e approfondisce l’approccio critico, questo primo periodo viene anche arricchito da immagini dei lavori di Goya, Van Gogh e Doré. Permane in questi ritratti un silenzio quasi assoluto, un’immanenza religiosa, soprattutto in Millet e Van Gogh, un rispetto profondo della vita e dell’ambiente circostante. Nelle incisioni ad essere accuratissimo non è solo il volto umano, il corpo, o la postura, ma ogni filo d’erba riceve il rispetto dell’artista, che lo delinea con esattezza.
La seconda sezione del percorso espositivo è incentrata sul rapporto tra la città e la campagna. La rivoluzione industriale nata in Inghilterra si propaga verso sud; l’uomo in cerca di un alloggio, di pane per se stesso e per la propria famiglia migra nei centri urbani e da contadino entra a far parte di un sistema. Giuseppe Pellizza da Volpedo descrive la Fiumana dei lavoratori, la loro forza e bellezza: in mostra è presente una figura centrale a matita e carboncino su carta beige. Il popolo degli umili, dei ripudiati da tutti, dei senza terra e senza cibo, emerge dalla mano potente di Kaethe Kollwitz che parla di disperazione, cospirazione, ribellione e sterminio. Ampia è la macchia scura del delirio, della forza cieca della massa, e chiaro resta solo il cielo o una striscia tra la terra e le nuvole. Riposante nelle gradazioni è invece il polittico in quattro parti di Duilio Cambellotti.
Nella sacralità delle ombre –in un inchiostro su carta incollata su cartoncino- gli utensili che troneggiano sono testimonianza della fatica e del sudore; le nere ciminiere con le lunghe file di uomini all’uscita delle fabbriche su di un cammino verde oliva testimoniano della stanchezza e dell’usura.
Felice è l’incontro con Lorenzo Viani, che spese la propria vita in assoluta povertà, rattrappito dal freddo in una Parigi inclemente, mentre ritraeva l’allegria, a lui totalmente estranea, dei buoi, e la vecchiaia in Vecchi coniugi, a lui altrettanto negata. Segue Emil Nolde, per incontrare poi il disegno plastico sapiente e maturo di Umberto Boccioni. Di particolare spessore, è il disegno apparso su L’Illustrazione Italiana: Il Disastro Minerario di Radbod in Vestfalia: i morti per terra in lenzuola bianche e le mogli e i figli lacerati dal dolore, a strisce le vesti a cui parte della propria vita è stata strappata.
In Mario Sironi l’uomo è possente e fa parte dell’ambiente, tassello del suo operato. Siamo nel periodo delle guerre mondiali e, benché permangano scene di pastori con Benvenuti e Delitala e di pescatori con Lucerni, fu forse Sironi che maggiormente riuscì a ritrarre la macchina in una cupezza e pesantezza che va oltre i futuristi e i propri contemporanei. Ugo Attardi e Renato Guttuso spiccano per la mano felice nelle linee rigogliose dei corpi, mentre Vespignani ci porta in un’architettura geometrica in cui si respirano uno smog pesante, elettricità, alveari umani.
Chiude la mostra il segno inconfondibile di Emilio Vedova, chiazza rossa e pennellate libere nere in una litografia su carta del 1974.
anny ballardini
mostra visitata il 19 gennaio 2007
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