Il collezionismo d’arte esce dalle case private, gettando un ponte tra sfera estetica e vita quotidiana, tra la dimensione pubblica del museo e quella più intima dell’appartamento. Ebbene, ad accantonare l’animo geloso e possessivo del collezionismo autoctono ci pensa lo sguardo ironico e spregiudicato di oltre cinquanta opere che invitano il visitatore, tra oggetti, suppellettili, mobilio, figure d’interni (dove l’estetica, la sociologia e la smania si incontrano) a trasgredire la consueta condizione di privacy in cui vive. E se è vero che senza un pubblico non esiste una collezione, lo sguardo curioso enunciato dal sottotitolo della mostra trasmette tutta l’importanza della dimensione accessibile, visibile e agibile delle raccolte d’arte, arrivando al confidenziale o addirittura all’intimo degli ambienti domestici.
Il trampolino verso l’interno è offerto dalle entrate di Hans Schabus e del duo Vedovamazzei, collocate strategicamente all’ingresso. Le due installazioni sono caratterizzate dallo stesso spirito rigoroso ed essenziale ma sollecitano emozioni molto diverse: la prima comunica un senso di distacco e di immobilità che quasi ricorda l’atmosfera di un set da tempo abbandonato, mentre l’altra -posta obliquamente alla parete- crea una suspense capace di rendere penetrante e spiritoso l’ordinario e il familiare. Tra le opere più intriganti dell’esposizione c’è certamente la cristalliera di Lorenzo Scotto di Luzio: l’assemblage di bomboniere vibranti nel cimelio di casa fanno provare al visitatore la sensazione di essere deriso dall’atmosfera spassosa –a tratti spiritata– della situazione (concepita, si potrebbe aggiungere, con l’intento di beffeggiare i modelli di una certa cultura legata alla meraviglia e al prodigio).
Qualcosa in comune con Scotto di Luzio ce l’ha Valerie Hegarty con il suo surreale, spettacolare, effetto sisma: l’immagine di una casa che irrompe smembrando un’intera parete e invadendo la stanza con fili elettrici, carte, superfici in parte distrutte e detriti lasciati a terra, dà vita ad un’atmosfera di caos visivo simile a un’allegoria barocca della fragilità, e della vulnerabilità di ogni corteccia protettiva.
La meraviglia è garantita anche da Spencer Finch e dal suo Blue Sky, costituito da metallo, cavi elettrici e una corolla di centosettantatre lampadine che pendono come originali e improbabili lumiere. I piccoli corpi celesti e le loro vibrazioni luminose evocano cieli, nuvole, firmamenti, e trasformano il soffitto di un comune spazio abitativo in un interscambio continuo con il fantastico e il visionario.
Infine, nella coralità dei diversi lavori, a cogliere appieno la quintessenza dell’ingegno innestata alla vita quotidiana ci sono altresì il posacenere parlante di Thorsten Kirchhoff e il giradischi luccicante di Jim Lambie. I due artisti hanno trasformato dei meri complementi d’arredo in elementi teatrali, narrativi, ricettivi al minimo segnale. Ricorrendo al medesimo atteggiamento di ironico e paradossale confronto con ogni immagine tradizionale o realtà considerata oggettiva.
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www.spencerfinch.com
marianna agliottone
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mostra oscena. il museion fa tenerezza. qualcuno salvi il savabile (la biblioteca).
secondo me, siete invidiosi degli artisti...
una mostra di basso profilo e un catalogo riciclato...