È riuscitissimo l’allestimento della mostra di Giuliano Vangi (Barberino di Mugello, 1931) nel palazzo patavino che ospita il ciclo di affreschi dello zodiaco. È la prima cosa che colpisce. L’occhio è catturato dalla monumentale ascesa della scalinata centrale, che richiama alla mente le ziqqurat babilonesi, e conduce lo sguardo dello spettatore fino alla testa del cavallo ligneo che ricorda il Gattamelata del Donatello di Piazza del Santo. Qui, disposte in un crescendo drammatico, troviamo le sculture più recenti, realizzate quasi tutte in bronzo.
Uomo e caprone è la prima ad attirare lo sguardo: il peso dell’animale sembra quasi gonfiare l’uomo, ridotto ad una massa grezza e primitiva in cui il modellamento plastico viene realizzato dall’artista con le dita. Similmente ad Uomo ed animale, dove l’individuo spersonalizzato in cravatta (che contrasta con l’informe drammaticità della scena) ha i denti sgranati e dei fori al posto degli occhi, mentre il cavallo alle sue spalle è squartato e lascia quasi le interiora visibili. La violenza ed il desiderio di sopraffazione dell’individuo sull’individuo caratterizzano anche Il vincitore, in cui la stessa massa informe −modellata spesso con le mani o con spatole e rastrello− non differenzia vittorioso e sconfitto; e Ares, in cui il volto bestiale è sottolineato dalla bocca spalancata e dagli occhi appena accennati con una leggera incisione sulla testa. Invece l’azione perentoria della testa tagliata da due boia incappucciati di C’era una volta (opera realizzata nel 2005 in materiali differenti e del quale, come di molte altre, sono presenti disegni e lavori preparatori su carta),
La mostra prosegue con una serie di lavori antologici, tra cui si distingue una splendida Donna che ride in alluminio dipinto del ’68, in cui le masse sgraziate della ragazza che si scompone e i denti realizzati con il ricorso a delle protesi dentarie (l’ossessione dei denti appare centrale nella poetica di Vangi) sembrano creare una nuovo modello femminile, inquietante eppure affascinante. E il fascino misterioso di Elena ci insegue nel marmo delle vesti, nel corallo dei capelli, mentre la seduzione dei panneggi del bronzo di Ragazza con cappotto sembra diventare angoscia quando è un uomo a portare il cappotto, e le sue mani sembrano pronte ad una azione violenta ed efferata. Nelle sculture degli ultimi vent’anni i materiali si sommano e spesso l’artista toscano (presente numerose volte a Documenta e Art Basel, e che ha avuto una stanza personale alla Biennale del 1995) ricorre al colore (e all’oro) per sottolineare ciglia, barba, capelli, e per realizzare anche delle delicatissime acqueforti-acquatinte di grandi dimensioni.
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