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SPECIALE VENEZIA

di - 12 Luglio 2017
Si intitola “We Have Never Stopped Building Utopia” la mostra a Ca’ Foscari di Valery Koshlyakov (1962), artista russo, “architetto” delle utopie dal segno gestuale e dalla pennellata aggressiva di un lucido visionario in bilico tra il gigantismo nel formato delle sue opere, e anti monumentalismo nei contenuti.
L’artista debutta alla fine degli anni Ottanta, nell’ambito del collettivo “Arte o Morte”  (dal 1986 al 1989), quando dopo i concettualismi sperimentali e la smaterializzazione dell’arte del decennio precedente, si torna alla pittura di matrice espressionista, all’energia del colore  e alle  immagini che producono simboli, metafore e immaginazione. L’artista torna a Venezia, dove è stato protagonista nella Biennale del 2003, con una mostra personale – quasi antologica – ospitata a Ca’ Foscari dal titolo promettente, “Non smettiamo di costruire l’Utopia” in italiano appunto, a cura di  Danilo Eccher, organizzata con la collaborazione del Museum of Russian Impressionism di Mosca e Ca’ Foscari University’s Centro Studi sulle Arti della Russia (CSAR). In questo palazzo incastonato nel cuore di Dorsoduro si inscena la disgregazione delle grandi civiltà occidentali, in cui nel tratto vigoroso post espressionista dell’artista russo si coglie la fragilità, l’ansia di un futuro che fatichiamo a immaginare rigenerato sulle rovine di città, architetture grandiose come le rovine di Pompei, il Colosseo, il Cremlino, il Phanteon o  Place de la Concorde, Notre Dame. Questi e altri maestosi edifici staliniani sgretolati dal tempo e in via di dissoluzione compongono un crossbuildings tra passato e presente, scenari apocalittici sospesi tra ricordo e memoria, in cui il contenitore indica il contenuto. Una visionarietà decadente la sua, edificata sulle impalcature della memoria, del ricordo di una grandezza perduta di grandi civiltà corrose dal tempo che a Venezia trova lo scenario più adatto, una città paradossale che sembra emersa sull’acqua oggi putrida e stagnante, dalla bellezza fragile e misteriosa al tempo stesso, vulnerabile, come un Narciso malato immortalato mentre si riflette  nei canali che trasudano di morte. Koshlyakov dipinge su materiali poveri, di scarto come cartoni, utilizza colla, scotch, colore avanzato e anche plastica, per  grandi opere e sculture di piccolo formato che definiscono la serie delle Icons ispirate alle avanguardie russe della prima metà del Novecento, dal Suprematismo al Costruttivismo, contro composizioni di dissonanze di un attualità sconcertante che invitano a riflettere sul crollo delle utopie più che sulle speranze ma tutto dipende da come le si guarda.
Valery Koshlyakov, We Have Never Stopped Building Utopia, Ca’ Foscari
Queste sculture-vanitas raccolte in una sala al piano terra di Ca’ Foscari aprono riflessioni sull’identità della cultura e architettura russa, rivisitando il passato senza cedere alla nostalgia, piuttosto affascinano per intuizione formale e abilità compositiva. Le sue gigantesche vedute di città “polverizzate” dal tempo, disintegrano le certezze del passato, dissolvano città metafisiche e sospese nel non luogo della memoria, che investigano in chiave metaforica la trasformazione della società globale, la crisi della modernità e delle utopie infrante attraverso soggetti “monumentali”: quelli che lasciano un segno perenne nell’immaginario collettivo come  sculture classiche, capi e dittatori, architetture imponenti, ready made di vulnerabilità del progresso. Un tema decadente che è alla base della poetica di Koshlyakov, ripensato in maniera attiva con immagini che aspirano all’eternità, a collocarsi fuori dal tempo e dalla storia. Le sue rovine, macerie, frammenti di monumenti, ed altre evocazioni che rappresentano il potere, l’autorità, lo stato sovrano di un regime dittatoriale che, come la storia insegna prima è destinato a perire. La sua funambolica visione di luoghi dell’utopia si rigenera da una spinta fideistica di idee, modelli nuovi, nata dal crollo dei monumenti dedicati a Stalin e dallo sbriciolamento di grandi civiltà del passato come ricerca poetica di “architettura” una nuova bellezza senza sapere quale.
Jacqueline Ceresoli

Jacqueline Ceresoli (1965) storica e critica dell’arte con specializzazione in Archeologia Industriale. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente.

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