Chimbote. Ph Davide Fabio Colaci
Questo viaggio non è stato il classico viaggio in Perù. Non racconterò del Machu Picchu, di Cusco, della Valle Sacra degli Incas o di Nazca, luoghi che non ho mai visitato e che mi prometto di vedere presto. Niente posti da cartolina o filtri patinati per like facili. Dopo la pandemia sono partito per le Ande con la mia amica Luisa, il suo compagno Francesco e la figlia Giovanna, invitati da una comunità lontana e accompagnati da tre sconosciuti: Simone, Giulia e la piccola Bianca. Oggi siamo tutti buoni amici.
Siamo partiti per esplorare le possibilità di un progetto curatoriale tra Italia e Perù, che ha poi dato vita ad Artesanos: un’iniziativa nata con lo scopo di offrire lavoro e dignità alle persone svantaggiate delle Ande, attraverso il design e la creazione di un polo produttivo integrato tra mercati lontani e tradizioni condivise. Non ho intenzione di raccontare questo viaggio giorno per giorno, quindi ho tirato fuori qualche pezzo sparso dagli appunti che avevo scritto a penna durante la risalita verso le Ande. Nessuna storia lineare, nessuna visione d’insieme: solo frammenti di un taccuino personale rimasto fermo per più di quattro anni sulla mia scrivania, in attesa di essere sfogliato di nuovo.
4.12.2021, Lima (30m s.l.m). Siamo Atterrati. Ci dirigiamo con delle macchine in una delle mille periferie di Lima, precisamente El Rescate, dove dormiremo. Attraversiamo una vecchia zona industriale con edifici anni Trenta dove ora ci sono solo concessionari di macchine agricole, magazzini edili, uffici e grandi recinti altissimi. Per strada c’è tantissima spazzatura, anche nel centro della carreggiata ma che puliscono solo il giovedì. Francesco dice che ci sono più cani che uomini per strada.
Arriviamo in un posto chiamato La Fabrica. Un edificio cinto da mura altissime e pareti colorate, come fosse una prigione. Agli angoli di tutte le costruzioni ci sono delle torrette difensive da tiratore scelto, ma ora sono vuote. Ci accoglie Manuela. È gentile e molto diretta, ha paura di uscire la notte perché il quartiere è molto pericoloso, ma tutte le mattine esce alle 5:30 a comprare del pane buonissimo. Un rischio calcolato. Ci prepara la colazione e ci racconta che Lima è una città difficile e pericolosa anche dopo la fine di Sendero Luminoso: un gruppo guerrigliero maoista che ha operato in Perù dagli anni ’80 agli anni 90 e che ha messo in ginocchio la popolazione.
5.12.2021, Lima (30m s.l.m.). Angelo mi dice che il museo Larco (nome ufficiale è Museo Arqueológico Rafael Larco Herrera) è molto bello. Anche se i musei in Perù sono tutti ripetitivi (!) perché qui si è conservato sempre tutto dato che non piove mai e sotto terra si mantiene ogni cosa. Se scavi trovi oggetti nella stessa posizione di duemila anni fa. Angelo mi dice anche che lo scrittore H. Melville in uno dei sui viaggi ha trovato la città molto verde ma anche molto noiosa. Chissà se è vero e chissà se l’autore di Moby Dick in Perù c’è mai stato. Ora di verde c’è ben poco e ci sono solo brutte case e quartieri forse ancora più noiosi.
Al bar del museo abbiamo bevuto una “chicha morada”: la bevanda tradizionale peruviana, analcolica, a base di mais viola (maíz morado). Luisa pensa che con due parti di vodka o un po’ di ginger beer potrebbe essere il cocktail di punta di un locale a Milano. Al bar c’è tanta gente che si sente molto ricca, e forse lo è davvero. Sono rapiti solo dai cellulari e mai dalle bouganville di mille colori o dalle splendide felci con le foglie a corna di cervo che volano su le nostre teste. Il museo è bellissimo e la sezione sulle statue che fanno l’amore non ci ha fatto arrossire.
6.12.21, Jangas (2800m. s.l.m.). Jangas è un piccolo paese sulle Ande dove il tempo scorre lento e luminoso. Le case sono tutte di terra cotta e lamiera, solo le facciate in strada vengono dipinte di colori giallo, verde acqua, blu cobalto e viola. Le case non sono mai finite ma i colori si. Ci sono fiori e piante ovunque e tutte le finestre sono fatte di vetri specchianti blu elettrico come nei grattacieli delle grandi metropoli americane. Per strada camminano silenziose donne con cappelli appuntiti con piume d’uccello e con gonne fluorescenti ricamate una sopra l’altra: le “polleras”. Poco oltre la piazza un uomo che si sente molto potente ha costruito un piccolo grattacielo di qualche piano, forse cinque. Al centro del prospetto ha messo una grande telecamera per sorvegliare i passanti. Nella dignitosa povertà del quartiere i cani e i maiali che scorrazzano liberi non sembrano sentirsi osservati. Il cielo è terso e ci sono nuvole che il Messico se le sogna.
7.12.2021, Chacas (3360m s.l.m.). Chacas è sempre stato un paese isolato, poverissimo, difficile da raggiungere. Più di un trentennio di isolamento, dice Lorenzo, è stata la più grande risorsa di questa comunità. Le chiese e le case sono state costruite senza fretta, senza quella fretta che tutti hanno quando ristrutturano o costruiscono una casa. A Chacas c’è una piazza gigante tutta ricoperta d’erba come fosse uno di quei progetti che vanno tanto di moda ultimamente. Si racconta che un benefattore volesse donare dei soldi per pavimentarla e Padre Ugo offrì il doppio per lasciarla così com’era. A volte costruire è proprio come distruggere, e gli abitanti di Chacas forse non lo hanno mai saputo e forse ora lo sanno perchè a nessuno è più venuto in mente di cementificare quella stanza a cielo aperto sul tetto del mondo. Chacas è cosi bella e così semplice da trasformare la povertà che la circonda in un male minore, quasi sopportabile. Ma forse è solo la retorica di un passante qui per caso che prima o poi tornerà a casa sua.
8.12.2021, San Luis (3331m. s.l.m.). Mangiamo sempre dei frutti strani: chirimoya, alkekengi, granadilla, anche se il mio preferito è il pacay che Cecilia dice sembra fatto di cotone. Qui il mango ha mille colori e sapori diversi e tutto ha il gusto delle cose buone. Abbiamo mangiato anche il Cuy, un roditore che si alleva nel cortile come le galline e che sa di pollo. Abbiamo mangiato anche delle patatine che hanno lo stesso sapore in tutto il mondo, dice Giovanna. In Perù si mangia benissimo e ci sono tanti ristoranti stellati ma la maggior parte della popolazione mangia poco e male.
Ogni giorno viaggiamo verso un paese diverso con Jeep e furgoncini senza ammortizzatori che ci fanno rimpiangere le grigie strade d’asfalto. San Luis non è un paese particolarmente bello e la gente sembra non curarsi che stia lentamente scivolando verso la valle. È stato costruito su un costone di argilla che ogni nove anni scende di qualche centimetro, perché ogni nove anni non siamo riusciti a capirlo. Le case sono piene di crepe e di muri storti ma nessuno sembra curarsene. Forse perché concentrati a capire come fare “la plata” (i soldi) per potersi comprare una macchina sportiva e fuggire via.
12.12.2021, Chimbote (5m s.l.m.) Oggi da Chacas siamo partiti per Chimbote. Abbiamo attraversato le nuvole e la Punta Olimpica a 4.700 metri e poi siamo discesi nel deserto costiero di dune, sabbia e spazzatura. La Nueva Chimbote è una grande baraccopoli, sterminata e omogena, fatta da “invasiones”. Simone ci spiega che sono pezzi di terra occupati in maniera illegittima dalle fasce più povere della popolazione venute qui per lavorare nell’industria del pesce del più grande porto del mondo. Ma il pesce è sempre meno e il lavoro anche, invece la povertà aumenta sempre.
Non riusciamo a trovare la strada, Luisa nasconde la macchina fotografica, io non faccio foto con il cellulare. Nueva Chimbote assomiglia a una necropoli di terra e fango. Ma in mezzo a questo deserto tipo Mad Max dei volontari hanno costruito una scuola bellissima tutta bianca e piena di grandi finestre con un patio che accoglie e protegge. Un luogo dove sembra tutto possibile. Siamo andati quando la scuola era vuota e siccome ci sembrava un po’ triste, ci siamo tornati il giorno dopo. Le scuole di Nueva Chimbote sono belle quanto quelle italiane, perché i bambini sono felici, consapevoli della loro fortuna e del fatto di poter sfuggire alla miseria. Ci accolgono cantando, come fossimo dei capi di Stato. Le persone di Nueva Chimbote ci trasmettono una grande speranza.
Davide Fabio Colaci nasce a Milano nel 1978. Studia tra la facoltà di architettura di Porto e il Politecnico della sua città, dove si laurea e consegue un dottorato di ricerca in architettura degli interni e allestimento con Andrea Branzi. Nel 2012 fonda il suo studio di progettazione con l’obiettivo di indagare gli spazi e le forme della contemporaneità. E’ professore di progettazione di architettura degli interni presso il Politecnico di Milano e docente del Master di Interior Design presso NABA, Nuova Accademia di belle Arti. Scrive di progetto e svolge attività critica indipendente come curatore per istituzioni e aziende.
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