Categorie: visualia

visualia_interviste | Human, all too human

di - 12 Marzo 2009
L’ultimo progetto di Stefania Galegati Shines (Bagnacavallo, Ravenna, 1973; vive a Palermo) è legato ai suoi spostamenti e nasce da un’osservazione caotica eppur profonda della realtà. Il lungometraggio, suddiviso in sette capitoli, condensa ore e ore di riprese, realizzate dall’artista nei suoi viaggi fra i continenti. Il 24 gennaio scorso, Humans è stato visto simultaneamente in musei, gallerie, centri culturali, appartamenti e locali sparsi per il globo. Da Berlino a Tokyo, dalla Tanzania al Canada, da Milano a New York, grazie alla collaborazione di amici e conoscenti, l’opera ha aperto una finestra sulla quotidianità del mondo.

Hai girato per quattro anni, riprendendo attimi, sguardi, persone. C’è stato un momento particolare in cui ti sei resa conto che era tempo di fermarti e rielaborare?
Nei primi due anni sentivo la necessità di montare il materiale girato ogni 5-6 mesi. Inizialmente ne sono usciti tre video della serie Notes by chance (Animals, L’ora del sud e Implosion). Poi ho cominciato a girare con una videocamera e le minidv si sono accumulate fino a diventare 28 ore. Ho iniziato a caricare i video negli ultimi mesi di gravidanza e nei primi mesi dopo la nascita di mia figlia. Diciamo che è stata la pancia a farmi fermare…

Com’è maturata l’idea di presentarlo simultaneamente in vari spazi nel mondo?
A dire il vero, sempre un po’ per necessità familiari. Sto aspettando il secondo figlio e comincia a essere veramente faticoso spostarsi in tre e mezzo. Forse questo motivo fisico ha mosso il mio cervello a pensare in modo diverso, una sorta di reazione di sopravvivenza. In più, si tratta di un prolungamento di quella che è l’atmosfera del video… L’idea di affidarsi agli altri e anche un po’ ritornare sui miei passi per restituire immagini rubate. Ognuna delle persone o istituzioni a cui ho spedito il video lo ha interpretato a modo suo. L’esser proiettato in uno dei bar più fighetti di Shanghai oppure a casa di un’amica ad Amsterdam o nel negozio di una parrucchiera di Trento fa un po’ il gioco stesso del video.

Cosa intendi? La sensazione è che parlasse un linguaggio universale. Il mondo che guarda il mondo, indipendentemente da dove uno si trovi…

Sì, infatti, parlavo solo della presentazione. Per il video ho tentato di usare un linguaggio universale, ma ogni singola proiezione, il 24 gennaio, ha avuto un approccio diverso e un tipo di pubblico differente.

Come si pone questo progetto nei confronti dei tuoi lavori precedenti?
Come rottura e come continuazione. Il mio lavoro si è mosso sempre molto a zig zag, per scelta di mezzi, contenuti o atteggiamenti. Forse, rispetto agli altri, tutto questo ciclo di lavori si allontana un po’ dal linguaggio tautologico dell’arte contemporanea per diventare, forse, più una tautologia della realtà. Un tentativo, forse impossibile da realizzare, di attingere dalla realtà per riportare alla realtà stessa.

Con che occhi ti piacerebbe che le persone si mettessero a guardarlo? Con quale approccio, tensione, stato d’animo?
Mi piacciono gli incontri casuali, le reazioni di persone inaspettate. Mi affascina vedere qualcuno che si immerge nel video e si perde. In maniera privata questo lavoro mi appartiene più degli altri poiché la mia vita personale è talmente coinvolta che per me non c’è distacco. Al pubblico, invece, non importa chi sono io e questo mi permette di vedere il video come qualcosa che appartiene al mondo e non più a me stessa. Un giorno, un amico del paese da cui provengo mi ha detto: “Grazie per il viaggio che mi hai fatto fare”. Ho pensato fosse una buona ragione per continuare a lavorare.

Pensi che l’arte contemporanea sia capace di parlare all’umanità?

L’arte contemporanea appartiene a una fascia elitaria del mondo occidentale. E quindi no, non credo parli all’umanità. Soprattutto perché non credo parli. È una strana forma di comunicazione, che funziona al meglio quando non comunica o comunica male. E poi, coinvolte con l’arte ci sono le necessità del fare, quelle di espressione dell’autore. Ci sono i sensi, i sentimenti e lo stomaco. Dallo stomaco mi viene un bell’esempio: il modo migliore per descrivere un cibo buonissimo è quando è talmente buono che è indescrivibile, no? Devi assaggiarlo perché non te lo posso comunicare…

Stringi dei legami con le persone che decidi di riprendere?
A volte. Di solito preferisco rubare le immagini, ma a volte diventa casualmente importante la relazione con le persone. Per esempio, gli innumerevoli bimbi africani che giocano con la loro stessa immagine.

Non provi mai un senso di colpa nel rubare le immagini?
A volte sì, soprattutto quando il soggetto ripreso è davvero inconsapevole o davvero triste. Non so, forse è un’illusione, ma di solito sento un profondo rispetto per le immagini e i frammenti di mondo che riprendo. Di nuovo, a proposito dei bimbi in Africa, non ne rapisco due per attaccarli al mio seno per poi scattare foto che vendo a un sacco di soldi.

Parallelamente al video hai realizzato la pubblicazione Mamma non piangere. Che relazione esiste tra i due?

Molto stretta. Mamma non piangere è una raccolta di immagini che è cresciuta parallelamente ai video. Inizialmente è nata come raccolta di scritte. In molte mostre, negli ultimi 2-3 anni, alcune selezioni di immagini e i video Notes by chance di cui ti parlavo prima sono stati proiettati in modo sincronico. Farne un libro è stata una necessità di distribuzione e documentazione.

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a cura di saul marcadent

la rubrica visualia è diretta da claudio musso

[exibart]

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