Pierre Restany l’ho conosciuto alla Biennale di Venezia. Avevano da poco premiato Mimmo Rotella e si parlava di grandi nomi a venire nel mondo dell’arte. Era la biennale di Szeemann, un grande traffico tra le calli della città d’acqua; Pierre parlava allo staff della rivista D’Ars lanciando sistematiche occhiate al suo interlocutore più prossimo. Mi disse, ricordo, che l’arte aveva perso lo spirito. Già, lui di spirito e spiritualità ne sapeva qualcosa.
Da quando aveva incontrato un giovane di Nizza di nome Yves Klein, non s’era più mosso da posizioni di profonda simpatia verso le branche più pervasive del sentire umano. Lui che aveva teorizzato il Noveau Realisme, movimento dell’arte contemporanea studiato all’Università, ora mi sfrecciava davanti nel suo vestito di cotone bianco, sembrava un candido demone, un santone brontolone e divertito.
In verità si parlò di Mimmo Rotella, del suo lavoro sullo spazio cittadino che il critico francese delineava attraverso una mappa evinta dalle tappe di una passeggiata, una deambulazione tra i rami più remoti di un albero urbano capace di riaccendere il traguardo di una nuova utopia.
Il tipo di società che pensava Restany era leggibile tra le righe dei suoi scritti mai prolissi, piuttosto scorrevoli e coerenti, con un’idea di re-invenzione del reale alla luce di uno spiritualismo laico. L’alchimista che alcuni vedevano in lui non era un uomo alla ricerca di un repertorio simbolico deviante dal vero, ma un accurato ermeneuta di rara sensibilità, sempre attento a non scadere nel ginepraio della sterile erudizione.
Il suo era un progetto moderno fatto con la parte più “sentimentale” della società industriale, una tesi basata sul corpo pulsante della modernità, sulle sue scorie, ma anche sulla candida sindone di una consumistica e distratta manipolazione del mondo. Ciao Pierre
marcello carriero
[exibart]
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