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Come ti rompo l’inglese

di - 15 Febbraio 2014
È del 2011 Speak easy!, un articolo su Frieze in cui Jennifer Allen affrontava la questione della dominazione della lingua inglese nel mondo dell’arte, in particolare nella variante del “Globish” quella lingua franca con cui sarebbe possibile – secondo Paul Nerrière (Il suo Don’t Speak English… Parlez Globish!, edito dalla francese Eyrolles, è del 2004) –  conversare efficacemente, con un vocabolario di solo 1.500 parole, tanto con i madrelingua inglesi, quanto con i parlanti “colonizzati”. Al tempo la Allen chiudeva il testo con un’allegra tirata di orecchie ai madrelingua e alla loro orgogliosa resistenza davanti all’evoluzione dei tempi e alla necessità pratica della comunicazione globale. Il tema continua ad essere dibattuto dai critici – tanto per citare un testo, troviamo una nota nel recente Art in the age of Berlusconi, viaggio in Italia 2011, con Vincenzo Latronico e il suo A note on the English, in Italian Conversations (Fucking Good Art Editions, co-published con Nero, Roma e post editions, Rotterdam, 2012) – ed è stato affrontato da diversi artisti interessati alle questioni identitarie. Fra questi, Jakup Ferri con il video An Artist Who Cannot Speak English is No Artist (2003) o Nicoline van Harskam con il più recente The New Latin (2010).
Il lavoro di Cristian Chironi si inserisce in questa linea riflessiva. Obbligato, come tutti gli artisti, a fare i conti con una lingua imposta e con le difficoltà che ne derivano, sceglie di trasformare la propria esperienza personale in una serie di immagini, installazioni e interventi audio e performativi, inquadrando così la vita del singolo nelle dinamiche sociali che caratterizzano i nostri tempi.
Con “Broken English”, questo il titolo del progetto in mostra al museo MAN di Nuoro, il gioco delle contaminazioni fra culture e lingue diverse diventa un pretesto per indagare i risultati degli incontri e scontri fra mondi e identità. Per farlo, sceglie un riferimento storico della sua terra natia – frequenti i richiami alle radici sarde nella sua ricerca – l’ingegnere inglese Benjamin Piercy, progettista della prima linea ferroviaria dell’isola. Nei lunghi anni di permanenza, Piercy creò per sé un habitat ibrido, cosicché nel parco all’inglese della sua tenuta a Badde e Salighes (Nuoro) convivevano essenze locali, abeti del Caucaso, greci, persino un cedro dell’Himalaya. Un innesto ben riuscito, stando alla storia. Ma oggi? Da questo interrogativo prende avvio la ricerca.
Una performance, presentata live la sera dell’inaugurazione, il 31 gennaio, apre e lega le opere che compongono la mostra, in cui Chironi fa slittare il parlato nei gesti quotidiani, deforma la lingua, crea palinsesti della comunicazione.
Proprio la logica del palinsesto segna tutte le installazioni presenti e gli oggetti riconducibili a culture diverse (la porcellana inglese di inizio secolo, i tessuti turchi venduti nei mercati di Bruxelles, lo zerbino d’ingresso con la scritta Welcome acquistato in un negozio cinese, il tappeto sardo di Sarule, tessuto secondo la tradizione) vengono incastrati l’uno sull’altro in un dialogo obbligato che sottilmente evoca un senso di inquietudine. Ci sembra quasi voler instillare il dubbio sulla reale possibilità di una nuova identità frutto di unione reale di questi frammenti, parziali e incerti quanto le costruzioni linguistiche a cui si fa riferimento del titolo. Pessimismo che serpeggia anche in quelle opere che vogliono prendere un taglio più dichiaratamente socio-politico, come il grande collage creato da ritagliati dei più autorevoli giornali anglofoni e il piccolo salvadanaio in terracotta, poggiante su un Financial Times, in cui l’artista ha fatto incidere una frase tratta dai diari di Florance Piercy, figlia del già citato ingegnere, “Non sono povero. Non voglio due penny. Se non può darmi un franco, non mi dia nulla”. Chironi la riconduce al panorama economico generale ma che pare ancor più calzante alla situazione odierna di chi si muove nel mondo dell’arte.
Nella mostra il dialogo con il sistema artistico è infatti costantemente ricercato e anche quando la tensione dei contenuti si fa più alta, il criticismo è sempre stemperato dal un deciso (e ben riuscito) formalismo che ovatta gli interrogativi urgenti e calzanti. D’altra parte la questione identitaria, centrale nella mostra, non risulta ancora pienamente sviscerata neanche nella vita reale, fuori dalle mura del museo, e la diatriba linguistica in Sardegna non deve fare i conti fra l’italiano e l’inglese ma fra il sardo, l’italiano e l’inglese e, anzi, dovremmo dire fra i sardi. Questa può essere una preziosa occasione per interrogarci a riguardo. Come spesso accade, la ricerca artistica può proporsi come interruttore per far partire la discussione.
Il progetto presentato al MAN si inserisce in un processo di studio più ampio su cui l’artista sta lavorando da un anno a questa parte e che segnerà la produzione anche nel 2014. A Open#1 Broken English, seguirà Open#2: My house is a Le Courbusier, da realizzarsi in collaborazione con la Fondation Le Courbusier di Parigi. In questo caso la riflessione si lega ad un aneddoto di Orani, paese del nuorese che ha dato i natali all’artista. Nei primi anni Settanta, un giovane muratore locale, Daniele Nivola, ricevendo come regalo di nozze dallo zio Costantino, artista oranese newyorkese di adozione, un progetto per una casa firmato da Le Courbusier (i due oltre ad aver lavorato insieme erano legati da una forte amicizia) scelse di modificarlo – di fatto, annullandone il valore autoriale – perché inadatto alle sue esigenze pratiche. Quanto Le Courbusier c’è oggi in quella casa?
Ai due progetti espositivi si aggiunge anche una pubblicazione. I due Open, le interazioni fra mondi e linguaggi diversi e l’interrogarsi sui frutti di questi innesti, saranno infatti raccontati in un volume edito da NERO.
Speak easy (a broken english). L’importante è che quello che dici mi dia da riflettere.

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