È stato tra i primi artisti americani concettuali insieme a Kosuth, Victor Burgin, Lawrence Weiner. È intervenuto di recente, insieme a Daniel Buren, John Armleder e Liam Gillick, sulla struttura della Banca della Svizzera Italiana di Lugano. Ora Robert Barry (New York, 1936), torna alla galleria Minini con la sua terza personale.
Specchi, un wallpiece e una video proiezione che lo portano, di nuovo, a investigare gli spazi e le potenzialità del linguaggio. Un linguaggio usato non per trasmettere messaggi, ma idee: per questo si orienta, di volta in volta, su una lista di termini scelti in base ai luoghi e alle situazioni. Espressioni come waiting, becoming, somewhere, ask, desire, appaiono in un video girato sulla strada o su pareti specchianti di forme diverse. Sono tutte parole usate nel discorso quotidiano, ma che scomposte e isolate assumono una valenza più ambigua. Prive di qualsiasi connessione logica, hanno il solo compito di far riflettere chi le osserva, innescando processi mentali e speculativi. Non a caso, le teorie di molti artisti concettuali, sono vicine alle posizioni sulla lingua e sulla sua struttura logico–cognitiva, dei teorici linguistici Peirce e de Saussure. Le immagini, dunque, sono insieme di segni, e come scrive Barry: “hanno in se qualcosa di molto bello. Sono fuggevoli, sono ombra e luce, che rimandano solo in modo transitorio a qualcos’altro. All’inizio sembrano essere complete ed avere consistenza. Ma si tratta di illusioni che non riusciamo del tutto a cogliere. Sono in costante mutamento, proprio al limite della percettibilità.”
Si è lontani dalla definizione tradizionale di arte. Non è necessariamente qualcosa di visibile, ma un impulso, qualcosa che talvolta rimane inespresso. È idea, esperienza esistenziale, processo percettivo, che, per essere tale, ricerca l’integrazione tra l’opera e il suo contesto, tra l’immagine riflettente e lo spazio espositivo.
valentina rapino
mostra visitata il 24 settembre 2005
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