Categorie: altrecittà

fino al 22.X.2011 | Amir Mogharabi | Milano, Galleria Zero

di - 10 Ottobre 2011
Presenza che probabilmente si trova nei lavori in mostra appena si entra nello spazio espositivo. Un grande vetro triangolare imprigiona e blocca un lenzuolo o semplice un pezzo di stoffa bianco bruciato a tratti; proseguendo un’altra stoffa sembra essere imprigionata in un surrogato di una cornice e viene spontaneo chiedersi che significato ha tutto ciò? Cosa vogliono dire queste opere? Amir Mogharabi (nato nel 1982 a Shirazi, Iran, vive e lavora a New York), laureato in filosofia, mette in discussione l’esattezza della spiegazione, riflettendo sul ciò che è già dato, indagando sui “perché”. Per l’artista non conta il significato dell’opera in sé poiché concepisce l’arte come strumento esperienziale in grado di lavorare oltre le premesse contraddittorie dei problemi ontologici. “Se impariamo a considerare l’arte come mezzo di indagine in sé e accettiamo l’ambiguità delle sue risposte, allora, forse, potremmo accettarla come qualcosa che non ha bisogno di essere decodificato perché privo di riferimenti razionali”. Il rapporto con i concetti e la parola è fondamentale per l’artista, anche se non immediatamente visibile e percepibile nei suoi lavori, considerando inoltre che Mogharabi è il fondatore di Farimani, rivista interdisciplinare che esplora argomenti filosofici, fra arte e musica. Un meta progetto che prende il suo nome dal cognome della madre.

La premessa del mio lavoro è la sincerità. Ritengo che il lavoro teorico o concettuale sia viziato da un eccesso di attenzione all’idea, nella presenza o nell’assenza di materiali e situazioni specifiche”.
I suoi lavori sono composizioni, assemblaggi eseguiti nella loro materialità che si alternano a sculture minimali e pitture, come si percepisce nei lavori in mostra, una tela o tavola diventa pittura, un vetro mantiene la sua forma installativa sia intero sia poi frammentato. Il segno e la linea a loro volta diventano scultura quasi minimale, più in là la scultura è data in un blocco di pietra posta su un basamento bianco puro, che riporta in se tratti ancora di pittura mediante un decoro, probabilmente fatto con uno stencil. Il tutto è un alternarsi ritmico, poiché quest’ultimo ricompare di nuovo nella pittura. E questa ancora una volta riporta alla scultura come l’installazione che invade la seconda stanza dello spazio, in cui la pietra si fonde con il vetro rigorosamente di forma triangolare, illuminato da una luce soffusa.

Il tutto mantenendo un rapporto di intuizione con i materiali, le scenografie, le impostazioni e le modalità con i quali, da una prospettiva reale, l’artista si rifiuta di ragionare all’interno dell’esistenza, lavorando su un piano teorico che non può essere catturato, scambiato, riprodotto. “…E tra queste pietre sarà la poesia della mancanza…Tra un coltello a filato, ed un vetro rotto in se stesso. Tra le stanze, e le verticalità dei numeri, e la responsabilità della faccia dipinta. Il cambiamento del cambiamento. I gesti dei gesti. L?amore di vivere come un animale che mangia pietre per dormire, senza pensare” (A. Mogharabi).
tiziana leopizzi
mostra visitata il 1 ottobre 2011
Dal 15 settembre al 22 ottobre 2011
Amir Mogharabi. Al Di La.
Zero
Via Tadino 20 Milano
Orari: da martedì a venerdì: 11-13.30 e 14.30-19.30, sabato: 15-19.30
Ingresso libero
Info: t +39 02 87234577, f +39 02 87234580,
info@galleriazero.it, www.galleriazero.it
[exibart]

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  • questo risultato finale era nell'aria, come giustamente profetizzato. Anche Amir rientra nel gruppone dei NEW ARCAIC (primitivismo, recupero atmosfere vintage, memoria, poesia pilotata). Sembra che le giovani generazioni per essere accettate debbano sempre recuperare una certa retorica rassicurante del passato; si finisce per proporre immaginari (anche di qualità);

    ma la giovane arte si deve limitare a proporre immaginari o lavorare maggiormente su i codici??? Non sono gli stessi immaginari più colti e sofisticati che possiamo trovare anche nei grandi magazzini della Maison du Monde, dove ad ogni angolo si trovano oggetti, mobili e gingilli di tutte le culture/stili del mondo? Potremmo parlare di una maison du monde avances? Invece che la solita ikea evoluta?

    Non sembrano queste opere i gadget e gli accessori di un film X? Proponendo oggetti feticcio non si contraddice proprio quell'immaginario a cui si fare riferimento? Il feticcio non contraddice l'esperienza autentica di un immaginario? Perchè non si cerca di recuperare l'esperienza in modo più autentico?

    Luca Rossi

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