L’attività di ricerca del perfetto equilibrio tra vita pubblica e vivere privato provoca sfregamenti. Vere e proprie alterazioni tra le rappresentazioni, tra le idee dell’uomo sociale e quelle dell’uomo della distrazione. L’uomo nascosto, il privus privatus della latinità. Nel presente imperfetto, il dominio privato prescinde in ogni sua parte dal sociale negando i valori della libertà. Libertà, quell’antico, superato, ideale, slegato dalla costrizione pratica della quotidianità. Così, ben oltre l’abitudine di vivere agendo, l’uomo cerca un’identità che assomigli di più a cosa dovrà ancora fare, tralasciando quel che si è appena buttato alle spalle.
In questo senso, aruspice e premonitore, si muove la vincitrice della terza edizione del Premio Lorenzo Bonaldi per l’Arte – EnterPrize, la mostra Aestetic / Dietetics. Risultato di uno sguardo contemporaneo, del curatore Mizuki Endo (Sapporo, Giappone, 1975), l’esposizione propone i dissidi tra arte e vita, nei riflessi che passano tra occidente e oriente. Endo propone quattro sperimentatori che approdano allo scenario artistico occidentale, incuneandosi e ampliando le barriere, a tratti formali, del multiculturalismo. Le opere riflettono i bipolarismi insoluti che genera l’arte come comparsa estetica all’interno dell’andamento dietetico del fare-giornaliero, dispensato dai rituali umani.
La prima sala della GAMEC è interamente occupata da Nedoko (ovvero letto), l’installazione di Kikuko Nomi (Kumamoto, Giappone, 1975). La semplice pratica del dormire subisce numerosi prolungamenti, lanciati lungo il recinto perimetrale dei muri. Così da un’impalcatura a doghe in legno, assimilabile alla base per un letto, fuoriescono protesi imbottite. Il materiale morbido copre il luogo del privato, lo invade e lo trasforma, rendendolo un qualcosa di irriconoscibile, di tendente-a, di estraneo. Di seguito, l’opera video e alcuni scatti di Tsuyoshi Ozawa, (Tokyo, 1965).
Forse meno estroso, Ozawa esplora il day-by-day attraverso Vegetable weapons. Nell’insieme, il lavoro dell’artista esplora il lato povero del potere. Il suo assemblare arcimboldiano di armi, attraverso l’accostamento di verdure, definisce in maniera ironica la questione –digestiva- delle corse agli armamenti. Piacevolmente spiazzante, infine, il video God Bless America, di Tadasu Takamine (Kagoshima, Giappone, 1968). Questo lavoro occupa una sala del museo, fasciata interamente di rosso per l’occasione, e allestita ad hoc come sala-proiezione. Su una parete scorrono diciotto giorni di vita, ripresi senza interruzione, da una telecamera, all’interno dello studio di Takamine. Per l’artista, così, fare l’amore, mangiare, dormire, invitare gli amici diventa il solo modo per liberarsi e celarsi. E questo, forse, grazie all’eccezione dell’estetica. Il fare, dunque, corrisponde ad un desiderio, ad un pensiero con molti volti, come la mai-ferma scultura di pongo, al centro dello schermo. Ancora una lezione di intimità, dunque, oltre gli schemi del reality americano, di poco al di là degli imposti canoni di una improbabile every-day-freedom.
ginevra bria
mostra visitata l’8 luglio 2006
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